Crescere e aiutare a crescere anche attraverso il governo della propria finitudine
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“Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione.
Altre volte è come un’ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c’è una sorta di coltre invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. È così poco interessante. Però voglio avere gente intorno. Ho il terrore dei momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero fra loro e non a me” (C. S. Lewis, Diario di un dolore, 1961).
Si aprono, improvvisi, squarci di vuoto. La trama della vita può improvvisamente disfarsi, a prescindere dalle nostre possibilità di controllo, o dall’aver desiderato, o creduto, di poterne avere: una credenza, quest’ultima, che spesso si frantuma fin dalle prime esperienze di dolore e di perdita.
Si approssima, così, un orizzonte complesso, disordinato, confuso, che fa paura, che toglie, come racconta Lewis, parole, pensieri, relazioni. Un orizzonte che modifica il nostro modo di vedere e percepire il mondo, a metà strada tra la percezione di una umanità finita, limitata, mortale e il (talvolta contrastante) desiderio di un infinito, comunque esso si manifesti e lo si intenda.
Non è facile accoppiare questa consapevolezza alle dinamiche autorappresentative della società contemporanea, che tende a occultare tutto quanto (sofferenza, malattia, miseria, bruttezza ecc.) può “disturbare” o scalfire un’idea edulcorata del vivere.
L’ipotesi che MeTis sonda con questo numero è che nella piena consapevolezza del limite dell’uomo e della donna − e nel modo in cui si reagisce di fronte a questa inevitabile realtà − risieda una importante precondizione della felicità, o almeno di alcune sue rilevanti forme. In tal senso, se questa prospettiva risulta plausibile, il pedagogico dovrebbe confrontarsi con teorie e prassi educative tese a promuovere un sano, per quanto “inquieto”, rapporto con la finitudine nelle svariate e diversificate fenomenologie che questo concetto può assumere nella vita di tutti i giorni nonché nelle prefigurazioni (finite e/o infinite) a cui esso può aprire.
In ciò vi è, in parte, l’eco suggestivo delle parole di un Dostoevskij che, attraverso i suoi personaggi, con queste parole obbligava a ripensare il rapporto tra uomo e quanto a lui provochi dolore: “Io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza… Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza… In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos’è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos’è meglio?” (F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, 1864).
Per altra via, anche Giovanni scriveva di un Dio che fa della “potatura” il necessario passaggio per produrre più frutto: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (Giovanni, 15, 2).
La questione posta, dunque, assume la forma della seguente domanda: in che modo crescere e aiutare a crescere (è questo il senso dell’educazione) anche attraverso il governo della propria finitudine – che non può non ammettere anche la sofferenza, il distacco, la perdita − e, in questo modo, raggiungere quella saggezza capace di dare senso alla vita e alimentare speranza per il futuro?
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