Design e Mezzogiorno tra storia e metafora

Design e Mezzogiorno tra storia e metafora

Raffaella Rosa Rusciano, Renato De Fusco

Design e Mezzogiorno tra storia e metafora

Un confronto tra il design, inteso come metafora del progresso, e il Mezzogiorno, come metafora del mancato sviluppo.

Anno di pubblicazione: 2015
Numero di pagine: 216
ISBN 978-88-6194-268-4 Tipologia

Prezzo

22,00

Per la prima volta il design, inteso come metafora del progresso, e il Mezzogiorno, come metafora del mancato sviluppo, sono messi a confronto. Il rapporto è anche storico: il Regno delle Due Sicilie coincide cronologicamente con la Rivoluzione industriale, anzi il Sud talvolta anticipa con i suoi primati quanto avveniva in Inghilterra e in Francia, tant’è che quello delle Due Sicilie era non solo il più importante Stato italiano, ma il terzo in Europa.
Il saggio racconta le vicende che portarono il regno meridionale dall’agricoltura all’artigianato e da questo al design; il fenomeno delle aziende straniere che venivano a investire al Sud; lo sviluppo artistico e culturale di quest’ultimo (il Liberty nasce a Palermo); il contributo allo sviluppo industriale dato dai Borbone e quello dovuto agli imprenditori siculo-napoletani; la coesistenza di una economia protezionista con un’altra liberistica.
Né il libro si esaurisce in vicende politiche, industriali ed economiche. In esso si tratta lungamente anche di personaggi famosi, di illuministi nostrani, di grandi famiglie, di usi e costumi. Come una guida del Seicento, avremmo potuto intitolarlo anche Notizie del bello, dell’antico e del curioso del Regno della Due Sicilie prima e dopo l’unità d’Italia.

Raffaella Rosa Rusciano

Raffaella Rosa Rusciano è architetto. Nel 2012 ha conseguito il master per la città antica di Neapolis. È assistente ai corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Teoria storica dell’architettura, tenuti da Renato De Fusco presso l’Università di Napoli Federico II. Ha partecipato alle conferenze-seminario sulla Storia dell’arte e sulla Storia dell’arredamento svolte alla Galleria Il blu di Prussia. Nel 2003 Ha pubblicato con Renato De Fusco il volume Tre domande, edito da Altralinea di Firenze.

Renato De Fusco

Renato De Fusco è professore emerito di Storia dell’architettura. Nel ’64 ha fondato e ancora dirige la rivista «Op. cit.» di selezione della critica d’arte contemporanea. Nella sua ricca bibliografia figurano testi teorici e metodologici di architettura, arti visive e design. Tra questi si distinguono: Storia e struttura (Napoli 1970), Storia dell’architettura contemporanea (Roma-Bari 1974-2007), Storia dell’idea di Storia (Napoli 1998). Con la Progedit ha pubblicato: Storia dell’architettura del XX secolo (2014), Le nuove idee di architettura (2015, in collaborazione con Cettina Lenza), Design e Mezzogiorno tra storia e metafora (2015, in collaborazione con Raffaella Rosa Rusciano), Ragionamenti sulla critica (2017), A come architettura (2018).

  • Recensione di Dario Russo a “Design e Mezzogiorno” di R. De Fusco e R. R. Rusciano

    17 Dicembre 2019

    Renato De Fusco e Raffaella Rosa Rusciano, Design e Mezzogiorno tra storia e metafora, Progedit, Bari 2015. 

    Comunemente si pensa che il Mezzogiorno sia un luogo sospeso nel tempo, la cui cultura millenaria s’è per così dire cristallizzata, incapace di evolversi, da secoli, incastonata in un magnifico paesaggio che trae la sua bellezza da fortunate condizioni geoclimatiche. Perciò il titolo del recente saggio di De Fusco e Rusciano – Design e Mezzogiorno – deve apparire inizialmente ossimorico: il design come simbolo della modernità del Nord e il Mezzogiorno come simbolo del sottosviluppo del Sud d’Italia. I tempi di Federico II appartengono ai libri di storia, la stupefacente architettura arabo-normanna, il magnifico edificio della Zisa, capolavoro di fisica tecnica… sono ormai residui di una gloria lontana, testimonianza d’un passato che fu. Più di recente, però, quale ruolo giocò il Mezzogiorno nella Rivoluzione industriale? Quale apporto diede allo sviluppo del Paese? Certo, il triangolo industriale si sviluppò tra Torino, Milano e Genova; ed è Milano, si sa, la capitale – indiscussa e per certi versi mondiale – del design. Ma proviamo, paradossalmente, ha cambiare il nostro punto di vista, per un attimo: e se il Regno delle Due Sicilie, fondato nel 1734, fosse stato più progredito del Nord? Se una rivoluzione industriale italica fosse scoppiata nel Sud, con i Borbone, e non altrove?

    Certo, la cosa potrebbe insospettire, fare pensare a uno sciocco anelito nostalgico-regionalistico, tanto più quando un critico palermitano recensisce il testo di uno storico napoletano. Allora veniamo ai fatti, a cominciare da un dato piuttosto interessante: all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856 risultò che le Due Sicilie erano lo Stato più industrializzato d’Italia e il terzo in Europa, dopo Inghilterra e Francia. Sul piano culturale e artistico, il Sud non aveva certo nulla da invidiare al Nord. Come scrive Giuseppe Ressa, «Napoli era il centro di pensiero più vivace d’Italia e seconda solo a Parigi per la diffusione delle idee dell’Illuminismo […] Ebbe a dire Stendhal: “Napoli è l’unica capitale d’Italia, tutte le altre grandi città sono delle Lione rafforzate”; era di gran lunga la più grande d’Italia e tra le prime quattro d’Europa», la più grande città europea messa nel mare, un centro commerciale attivissimo. Nel Regno delle Due Sicilie, c’erano quattro università: quella di Napoli, fondata da Federico II nel 1224, quelle di Messina e Catania, rinnovate dai Borbone, e la neonata Università di Palermo; a Milano la prima università, il Politecnico, fu fondata solo nel 1863. Prosperava al Sud una delle maggiori nazioni europee, con un’economia solidissima, tanto da spingere molti imprenditori esteri a investire nel Mezzogiorno: se prima o poco dopo l’Unità d’Italia dal Settentrione povero molta mano d’opera si spostò nelle nazioni europee sperimentando lo sviluppo industriale, qualche tempo prima dell’Unità, quando il Mezzogiorno era ricco, molti industriali stranieri vennero al Sud.

    Soprattutto, si registra nel Mezzogiorno una sequela galoppante di primati di ordine industriale e tecnologico. Il caso forse più noto quanto eclatante è la ferrovia Napoli-Portici, diventata retoricamente uno dei primi primati. […] Ferdinando II intuì per primo in Italia le potenzialità di un nuovo mezzo di trasporto che dal 1829 si muoveva velocemente nelle campagne inglesi: la locomotiva. Per volere del regnante Borbone, il 3 ottobre del 1839 ci fu l’inaugurazione del tratto Napoli-Portici della prima ferrovia italiana, progettata dall’ingegnere francese Armando Bayer de la Vingtrie. Allo stesso modo, già nel 1818 il primo mezzo navale a vapore varato nel Mediterraneo (una goletta) fu costruito nelle Due Sicilie e fu anche il primo al mondo a navigare per mare e non su acque interne: era il Ferdinando I, realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena presso Napoli; si tratta effettivamente di un primato perché persino l’Inghilterra [la nazione in quel momento più industrializzata del mondo] dovette aspettare altri quattro anni per metter in mare un’imbarcazione a vapore, il Monkey, nel 1822. Il primo ponte a impalcato sospeso in ferro in Italia (tra i primi del mondo) fu quello Fernandeo sul fiume Garigliano del 1832, dall’ingegneria avveniristica. Un anno prima, nel 1831, entrò in servizio la Francesco I che copriva la linea Palermo, Civitavecchia, Livorno, Genova, Marsiglia; con essa fu anche effettuata la prima crociera turistica del mondo nel 1833, in anticipo di più di 50 anni su quelle che la seguirono, che durò 3 mesi con partenza da Napoli, arrivo a Costantinopoli e ritorno tramite diversi scali intermedi. […] «Nel 1847 fu introdotta per la prima volta in Italia la propulsione a elica con la nave Giglio delle Onde» […] La prima nave che arrivò nel 1854, dopo 26 giorni di navigazione, a New York, era meridionale, il Sicilia; con gli Stati Uniti la bilancia commerciale delle Due Sicilie era fortemente in attivo e il volume degli scambi era quasi il quintuplo del Piemonte. […] Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie aveva la prima flotta mercantile e quella militare d’Italia, la seconda nel mondo.

    A partire da questi brillanti esempi, il saggio rileva la ricchissima cultura materiale del Sud, un design molto progredito, che assume qui un significato più ampio del solito, intendendolo riferito a ogni sorta di attività riconducibile all’industria come all’artigianato, al commercio come al consumo. A Napoli, per esempio, con la lavorazione della terraglia […] l’arte ceramica entrava in pieno nell’era dell’industrializzazione e del design. Inoltre, sia nel Meridione che in Sicilia, vanno citate, nella logica dei primati, l’industria tessile e quella delle cartiere. Tanto per stigmatizzare l’imbarazzante paragone produttivo Nord-Sud e ricordando che quello tessile fu il primo settore economicamente rilevante investito dalla meccanizzazione, prima dell’Unità d’Italia, oltre ai 414 operai della filatura Ponti, a Biella ne erano occupati 1600, a Torino nelle industrie miste di cotone e lana ne erano occupati 3744 mentre, contemporaneamente, nel Salernitano, comprensorio in cui si concentrò per eccellenza l’industria tessile meridionale, gli operai addetti alle fabbriche di tessuti erano 10244 […]; nei tre principali stabilimenti salernitani erano attivi 50 mila fusi contro i 100 mila di tutta la regione Lombardia; per questi motivi la provincia di Salerno venne definita dal suo intendente come la «Manchester delle Due Sicilie».

    Nel profondo Sud del Regno, un fiore all’occhiello dell’industrializzazione fu l’attività imprenditoriale di Vincenzo Florio e delle sue cantine, fondate a Marsala nel 1833 e in seguito trasferite a Palermo, in concorrenza con le famiglie inglesi che già operavano nel settore, segnatamente i Woodhouse e gli Ingham. La concorrenza, prima che sui mercati […] avvenne sul piano tecnologico; nelle cantine Florio, ad esempio, si realizzò il primo imbottigliamento meccanico ben in anticipo su quelle delle due ditte citate. Così ebbe successo Vincenzo Florio che, con una piccola flotta di velieri, spediva prodotti di qualità a New York, Boston, Londra, Liverpool, Marsiglia, Genova, da cui importavano a Palermo una notevole varietà di mercanzie. Possiamo dire che la chiave per intendere la fortuna di Vincenzo Florio e dei suoi discendenti consistesse in un ciclo completo di attività: produrre merci e costruire navi con le quali esportare e importare da tutto il mondo. Man mano che questo ciclo operativo si ampliava, ogni settore migliorava e s’ammodernava. Non meno rilevante fu l’impresa del figlio di Vincenzo, Ignazio, che, dopo aver acquistato le isole di Favignana e Formica, ampliò e ammodernò la tonnara esistente, facendola diventare uno degli stabilimenti industriali più efficienti del tempo, dando lavoro a tantissimi operai e, grazie a una nuova tecnica di conservazione in scatola del tonno, rendendo i suoi prodotti qualificati e suscettibili di essere apprezzati in tutto il mondo. Sono poi legate a Ignazio Florio diverse eccellenti iniziative imprenditoriali come la Fondazione del giornale «L’Ora» di Palermo o la realizzazione del Cantiere navale del capoluogo palermitano…

    Ancora a Palermo, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo, rifulge l’attività progettuale di due geniali architetti, Giovanni Battista Filippo Basile ed Ernesto, padre e figlio. Progettato dal primo e ultimato dal secondo, memorabile è il Teatro Massimo, il più grande d’Italia e uno dei più grandi d’Europa, terzo solo all’Opéra National di Parigi e alla Staatsoper di Vienna […] uno dei maggiori esempi italiani di Gesamtkunstwerk. Non meno innovativi sono il Villino Florio e Villa Igea all’Acquasanta, capolavori del Liberty italiano, entrambi a opera di Ernesto. In ordine di primati, mette conto notare che quest’ultimo non è soltanto l’esponente principale del Liberty, l’unico in Italia a fare progettazione totale (Gesamtkunstwerk); è anche designer ante litteram, progettista di arredi pensati, nel primo Novecento, in direzione dei processi industriali, nonché art director della Ducrot, quindi tra i primi a occuparsi di immagine coordinata di una ditta commerciale (corporate image), disegnando mobili, oggetti, carte da parati, marchi, caratteri tipografici… Grazie a Ernesto, la ditta Ducrot, fondata negli ultimi dell’Ottocento a Palermo dall’ingegnere francese Vittorio Ducrot, diviene presto sinonimo di raffinatezza, buon gusto e novità nell’arredamento: il binomio Basile-Ducrot rappresenta uno dei connubi più proficui delle arti applicate del periodo, tanto da rappresentare quanto di meglio potesse esprimere l’Italia all’Esposizione Internazionale […] di Torino del 1902. Tale successo plateale si ripeté felicemente a Venezia nel 1903, quando il gruppo siciliano si presentò unito a ditte e disegnatori napoletani, e a Milano nel 1906, dove i successi della Ducrot si moltiplicano e danno la dimensione di una grande fabbrica: la Ducrot è infatti in grado di realizzare il ciclo completo dotandosi di laboratori per tutte le lavorazioni […] Allo stesso tempo ha enormemente esteso il suo campo produttivo che ora comprende anche l’arredamento economico, realizzando una capillare rete di distribuzione tanto in Italia quanto in Francia e in Inghilterra. Ma già nel 1919, questo impero industriale è in netta decadenza. […] Negli anni Trenta, nonostante la tenace persistenza dell’artigianato e dell’industria del Sud, la fine della Ducrot segna la crisi dell’industrial design in Sicilia.

    Com’è possibile, allora, che nella seconda metà del Novecento lo sviluppo industriale, su cui prese forma il fortunatissimo design italiano, prese campo al Nord e non al Sud? C’è un momento storico, cruciale, in cui «parecchi miliardi sono passati dal Sud al Nord. […] Quali industrie aveva il Piemonte nel 1860? Quali la Lombardia? […] L’appaltatore arricchito del Piemonte è diventato industriale o banchiere, il costruttore lombardo si è trasformato in fabbricante di manifatture. Tuttavia, ciò non potea svolgersi senza un nuovo e più violento sacrifizio del Mezzogiorno: la sua trasformazione da colonia di contribuzione in colonia di consumo». Così, nel passaggio dal Regno delle Due Sicilie allo Stato sabaudo, si determinò una crisi mai risolta e denominata appunto «Questione meridionale». Il disegno politico dei piemontesi, fiancheggiati per motivi economici dalla Francia e soprattutto dall’Inghilterra, «prevedeva uno sviluppo accelerato del Nord, finanziato proprio dalle risorse rastrellate al Sud [ovvero una] politica di sistematica rapina». Tanto per fare qualche esempio, i fiori all’occhiello dell’economia meridionale come Pietrarsa, i cantieri navali, gli stabilimenti siderurgici Mongiana e Ferdinanea, l’industria tessile e le cartiere caddero in rovina e furono immediatamente chiusi. Contemporaneamente al Nord sorsero quasi dal nulla analoghi stabilimenti come l’Arsenale di La Spezia o colossi come l’Orlando. Analoga politica economica fu adottata in relazione alla costruzione della ferriera di Antina (al momento dell’Unità due altoforni erano già pronti), la quale venne subito sospesa, favorendo l’incremento di analoghi complessi nell’area ligure-piemontese (l’Ansaldo, che prima del 1860 contava soltanto 500 dipendenti, li raddoppiò in due anni). Allo stesso modo, il governo di Torino trascurò la – un tempo – formidabile Marina Mercantile meridionale, preferendo stanziare anticipi di capitale e sovvenzioni per le società di navigazioni, negandoli a quelle meridionali, che furono così tagliate fuori. Persino l’opificio di San Leucio, che aveva destato curiosità e ammirazione in tutta Europa, venne chiuso per cinque anni [e] poi dato in appalto a un piemontese. E via di seguito… Ma questa è storia passata.

    Nella terza parte del saggio, dedicata al post-moderno, gli autori descrivono la crisi del design ortodosso, basato sul circolo virtuoso qualità-quantità-basso prezzo, là dove il design s’è affermato storicamente, e cioè nel Nord, scosso già negli anni sessanta-settanta dai movimenti d’avanguardia: Radical, Anti- e Contro-Design. Si tratteggiano dunque gli effetti di una crisi post-industriale, che va tuttora spingendo la ricerca sul design, specialmente tra Milano e Torino, verso una dimensione immateriale, strategica nel senso di logistico-organizzativa, incentrata sul sistema e sulla progettazione del servizio offerto (design strategico, design sistemico e design dei servizi), che segna un allontanamento dalla cultura materiale e dal senso comune, ossia dai capisaldi della fenomenologia del design. E questa è storia più recente.

    Il Sud, invece – ecco la soluzione caldeggiata dagli autori –, attingendo alla storia e facendo leva sulla tradizione dell’industria meridionale delle Due Sicilie, potrebbe rilanciare la cultura materiale attraverso l’artidesign ovvero un mix di arte, artigianato e (industrial) design: un’attitudine, del resto, tipica del design italiano, che combina il meglio delle tecniche industriali all’attività manuale, il che significa anche finitura di pregio e personalizzazione, con un approccio artistico in termini di concept e ricerca ovvero di valore e qualità. Cosa ben diversa dalla produzione industriale di massa (tipica della II Fase della Rivoluzione industriale), si tratterebbe di un’attività più mirata, che si risolve in oggetti fatti per durare, perfettamente adattabili, di grande valore e lontani anni luce dalla smania usa-e-getta di basso profilo industriale. D’altra parte, la storia come regno della lunga durata s’addice all’artidesign molto più che all’industria. Infatti mentre l’oggetto artigianale, al pari dell’opera d’arte, è potenzialmente senza scadenza, anzi si valorizza col tempo, il prodotto industriale, al contrario «deve» scadere, consumarsi, per far posto a una nuova serie.

    In questa prospettiva, il “meno progredito” Sud non avrebbe neppure bisogno di ripercorrere le tappe del progresso per mettersi al passo con i Paesi emergenti (più industrializzati), perché – metaforicamente parlando – potrebbe saltare sul treno dello sviluppo-progresso all’ultima fermata, senza andare a prenderlo al capolinea. Il treno della III Fase delle Rivoluzione industriale 2.0 (qualcuno parla già di IV Fase) è la stampante 3D, una macchina portentosa in grado di espandere nel mondo fisico i disegni computerizzati. È possibile così puntare sulla materia, paradossalmente, grazie ai software: se il web ha rappresentato il passaggio dagli atomi al virtuale, la stampante 3D adesso restituisce i bit al mondo reale, depositando materia per livelli stratificati attraverso un software. Più di altri fattori utili allo sviluppo del Mezzogiorno, al suo pareggiare i centri più avanzati, è il fenomeno dei makers (dal verbo inglese to make, fare). La loro tecnologia sta nell’intreccio tra digitale e analogico e lo strumento simbolo sono le stampanti 3D. La stampa 3D, inoltre, è contrassegnata da un’intrinseca dimensione artigianale, oltre che immediatamente partecipativa e largamente open-source, facilmente praticabile, anche per i costi di produzione relativamente bassi (se non altro in rapporto a quelli della grande industria); caratteristiche molto vantaggiose per un Mezzogiorno in via di sviluppo. Si aggiunga che questa nuova tecnologia ha la capacità di riportare l’attività produttivo/manifatturiera a una dimensione locale e non più globale, in quanto i costi di spedizione e distribuzione incideranno più di quelli di produzione. Non è chi non veda l’incredibile opportunità per le regioni del Sud nel ritorno alla localizzazione dell’attività produttiva. Così, riprendendo alla metafora del treno dello sviluppo-progresso, ci sembra che il caso dei makers costituisca appunto una delle più importanti stazioni di questo itinerario. […] Si pone la domanda: oltre che consumatore, il Mezzogiorno sarà anche in un prossimo futuro produttore di tali manufatti? Queste ci sembrano delle opportunità da non sottovalutare e soprattutto da non lasciarsi sfuggire. Il treno sta passando; vediamo di non perderlo.

    Dario Russo

     

     

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