Fonte: repubblica.it, 18 luglio 2020
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#noncirestacheleggere La lezione di Annacontini per diventare forti
di GIANCARLO VISITILLI
Intervista al professore associato di Pedagogia generale e sociale del Dipartimento di Storia società e studi sull’uomo dell’Università del Salento sul libro “Imparare a essere forti” edito da ProgeditE’ il libro che tutti si dovrebbe avere sul comodino, “Imparare a essere forti” di Giuseppe Annacontini, edito da Progedit. Il professore associato di Pedagogia generale e sociale del Dipartimento di Storia Società e Studi sull’Uomo dell’Università del Salento ha scritto un importante saggio sulla capacità umana di reazione al cambiamento. E non si tratta di trasgredire, rinnovare o eliminare abitudini. Il senso di ciò che è contenuto nel suo prezioso libro ha a che fare con la testa, il cuore. E tutto ciò che in essi e per essi si muove. Dentro e fuori da ciascuno.
Mai titolo fu più utile, in questo momento in cui la fortezza vacilla in qualsiasi ambito. Come si insegna a essere forti?
“Innanzitutto vorrei sgomberare il campo da possibili fraintendimenti. “Essere forti”, nel senso che propongo in questo scritto, non ha nulla a che vedere con l’immagine di un “vincente” ad ogni costo, che non accetta mediazioni e affronta un conflitto (emotivo, relazionale o esistenziale) convinto che l’unica maniera per risolverlo sia l’“eliminazione” dell’avversario, del problema o dell’idea che ci si contrappone contingentemente. Esattamente il contrario, essere forti significa fare i conti con le proprie risorse ma anche, e soprattutto, con le proprie fragilità, le proprie paure, il proprio disorientamento, la propria vulnerabilità e riconoscere e accogliere queste istanze perturbanti per costruire con esse (e su di esse) il nostro percorso di vita. A piccoli passi. Per fare un esempio, ho sempre cercato di insegnare anche ai miei figli che perfino il pianto che segue a una frustrazione non è simbolo di debolezza se permette di reimpostare un dialogo che porti a considerare con maggiore lucidità i vincoli che rendono impossibile l’immediato soddisfacimento di un desiderio pure, per loro, importante. Sgomberato il campo da questo fraintendimento, sempre possibile, posso dirle, dal punto di vista personale e professionale, che più che “insegnare” a essere forti si può “imparare” ad esserlo, ovvero non ci sono ricette o tecniche che assicurino il risultato (e valga questa considerazione per qualsiasi prassi educativa) ma vi sono principi pedagogici che possono essere considerati di primaria importanza per sviluppare personalità sane, aderenti al personale desiderio di ulteriorità, rispettose del principio ecologico che il benessere personale è una questione di equilibrio dinamico tra io e mondo. E, in tal senso, due condizioni mi paiono imprescindibili: il tempo e la profondità. Perché si impara a essere forti sin dalla nascita, quando aiutiamo i nostri figli a fare i conti con le prime frustrazioni, il primo giorno di scuola, il primo voto andato male, la prima “ragazza” che ci lascia, e poi il collega che ci fa uno sgarbo, il tradimento, il fallimento, la sconfitta dei nostri piani, l’irrealizzabilità dei nostri progetti … Impariamo ad essere forti dalle sconfitte? Esattamente sì. Impariamo ad essere forti, sviluppando competenze di resilienza, di fronteggiamento delle situazioni più complesse che richiedono la nostra proattività, la nostra capacità di prendere decisioni, di riscrivere le narrazioni della nostra vita, di rimandare gratificazioni e gestire i fallimenti. Ma impariamo ad essere forti anche quando raggiungiamo con successo i nostri obiettivi. Perché ci dimostrano che abbiamo saputo progettare le nostre vite, perché abbiamo perseverato, perché abbiamo superato gli ostacoli e allora aumenta la nostra motivazione e il senso di autoefficacia e, giustamente, ci sentiamo competenti. E poi si impara dalla “profondità”: cioè dall’esercizio di un pensiero plastico e riflessivo, di una mente proteiforme che sa riconoscere gli infiniti fili che costituiscono la trama. Profondità di analisi e di pensiero, dunque, che significa anche sapere che è da stupidi pensare di poter escludere l’imprevisto dalle nostre vite”.
Non si studia, non la si insegna la “pedagogia della salute” di cui lei parla. Di cosa si tratta?
“Ha ragione. La “pedagogia della salute” è poco “pensata” e praticata. O se lo è, lo è per lo più come “educazione sanitaria”. Invece la pedagogia della salute è una scienza complessa che dovrebbe far parte del patrimonio teoretico e strumentale di insegnanti ed educatori, poiché guarda al benessere e alla salute come processo ecosistemico, che tende a promuovere il completo stato di ben-essere fisico, mentale e relazionale. In tal senso, essa guarda innanzitutto alla vita dell’uomo come percorso aperto, dinamico, sistemico per tutta la sua durata, l’uomo come soggetto in formazione continua. La pedagogia della salute, in altre parole, è uno sguardo critico sul mondo, teso a intercettare e/o costruire occasioni formative utili a potenziare tutte quelle variabili esistenziali che possono contribuire a rendere ciascuno autonomo nella progettazione di una “buona vita”. Dove nessuno, se non il soggetto in formazione stesso, può dire in maniera credibile a cosa questa “buona vita” possa corrispondere”.
L’educazione della persona non può prescindere mai dal contesto sociale. In che modo dovremmo rieducarci a un metodo, e quindi anche a una pedagogia sociale?
È vero, non è possibile, in ogni azione educativa, prescindere dal contesto di credenze e rappresentazioni che compongono il mondo del soggetto in formazione (che poi metodologicamente significa che non esiste educazione senza la continua pratica dell’osservazione), però io sono da sempre convinto che la scuola sia la vera chiave di volta di ogni intenzione educativa di cui la società ha bisogno per esistere e dirsi tale. Uno studioso e intellettuale eclettico quanto puntuale come Morin ha persino affermato che i docenti sono i primi promotori di salute pubblica e, secondo me, a ragione. Pensi a quanti messaggi, credenze, valori, potenzialità, passano ogni giorno tra i banchi di scuola. La scuola rimane, a mio parere, la vera palestra di dialogo e democrazia (e senza queste condizioni mentali prima che comportamentali o politiche non vi sono concrete possibilità di promuovere benessere), laboratorio per coltivare l’umanità, per promuovere capacitazioni o, al contrario, per disperdere talenti, per attivare processi di impotenza appresa e decapacitazione. Ecco, vede, io penso sempre che la scuola trascuri troppo e spesso il tempo e lo spazio per le “scienze del sé e dell’altro”. Che non significa mettere i saperi in secondo piano ma “incorniciarli” in prospettive di senso che li riportino ai “valori umani” della solidarietà, della cooperazione, della ricerca”.
In modo particolare, a pagina 29 del libro, lei scrive di come vivere la crisi.
“Anche qui mi si deve permettere la provocazione ma sono convinto che si debba sempre fare di tutto per non sprecare i “doni” della crisi. Perché se in tali situazioni ci si trova spesso senza avere la minima responsabilità o capacità preventiva di arginarne gli effetti distruttivi, comunque essa consegna nelle mani del singolo soggetto la possibilità di restare immobili su un percorso di vita già segnato, per quanto ora inefficace, o di procedere verso una nuova forma di vita da ricostruire, mai dal nulla, adattivamente, mettendo in gioco tutte le potenziali risorse cognitive, emotive e relazionali che possono farci autori di una nuova vita come opera d’arte (unica, originale, significativa). Interpretando pienamente il senso della vita come ininterrotto percorso formativo fatto di pensiero e storia passata e a-venire”.
E a proposito del coraggio, di cui tanto dice nel suo libro?
“Naturalmente si tratta di una disposizione per cui geneticamente l’uomo e la donna sono più che attrezzati (in quanto incompleti, proteiformi, generativi per definizione) ma che spesso culturalmente e socialmente è bilanciata dalla ricerca di stabilità e dalla promessa di una chiara comprensione di quanto ci accade intorno. Una ricerca di sicurezza e tranquillità routinaria cui siamo spesso disposti a sacrificare anche i nostri più creativi e promettenti desideri e aspirazioni. Il coraggio è allora la negazione dell’assenza di possibilità e la sua ricerca, è la risposta alla falsa certezza della predestinazione, è la scelta per un progetto di vita che dà valore a ogni singolo passaggio esistenziale perché non tutto nella nostra vita è possibile e ciò rende preziosa ogni scelta che in essa compiamo”.
Mai come in questo momento, l’urgenza è quella legata alla salute.
“La salute o, meglio, il ben-essere, è pedagogicamente un perfetto esempio di idea trascendentale. Idea perché universale e indeterminata; trascendentale perché completamente svincolata da ogni determinazione empirica. Infatti, quando parliamo di benessere tutti comprendiamo benissimo di cosa si stia parlando per quanto ciascuno intenda specificatamente una condizione fisica, emotiva, di relazione diversa da chiunque altro. In questo, l’implicito riferimento va alla personale responsabilità nei confronti del benessere che si rende evidente perché tale condizione è relativa sempre al progetto di vita della singola persona e tutte le risorse educative che possono circondarla alla fine risultano utili solo se si sarà riusciti a mobilitare le singolari risorse personali e sociali. L’idea di benessere e di salute sono, per così dire, solo degli orientatori generici, la loro traduzione storica e fattuale è invece nelle piene ed esclusive mani dei soggetti che ad esse danno un senso in relazione alla loro vita”.
Come ha vissuto la sua quarantena e cosa ha fatto per essere forte e aiutare i suoi cari ad esserlo?
“Le confesso che ho vissuto la quarantena in bilico, tra tante preoccupazioni e una strana sensazione di benessere. Le spiego subito il lato positivo, per non essere frainteso. Sono un pendolare, viaggio quasi ogni giorno per lavoro, ad un ritmo frenetico e spesso alienante. La sola idea di poter non correre, di poter recuperare tre piene ore al giorno per continuare a lavorare con tempi e in contesti più distesi, seguire per la prima volta l’anomala quotidianità in quarantena dei miei figli, “esserci” per loro per la prima volta e senza sensi di colpa e scoprire il loro eroismo nelle piccole cose è stato molto gratificante e veramente istruttivo. Il dialogo è stata la nostra arma vincente. Esplicitare le preoccupazioni, mantenere il contatto con gli amici e con i familiari più distanti, “andare” la mattina a scuola insieme (ovvero verificare il funzionamento dei computer e della rete) e aiutare a fare i compiti (ovvero imparare a utilizzare le piattaforme di elearning) è stata la nostra cura. Dopo un po’ anche il ridondante appuntamento con Conte, la Protezione civile e l’Istituto superiore di sanità è diventato un momento di incontro e dialogo, non più improntato alla preoccupazione ma alla fiducia che prima o poi le notizie e i toni sarebbero necessariamente volti in meglio. Ovviamente questo lato positivo del ritrovare lo spazio e il tempo innanzitutto per la famiglia si è scontrato con non poche preoccupazioni, non tanto per il contagio, su cui tutto sommato ciascuna persona di buon senso può prendere opportune precauzioni per limitarne al massimo i rischi, quanto per la tenuta delle reti sociali, economiche, sanitarie sotto la spinta di un evento radicalmente stressante”.