Nota di Antonio Basile a Pietro Sisto, «Il ’morso oscuro‘ della tarantola”, edito dalla Progedit (Bari 2023), nella collana “Il paese di cuccagna”.

Nota di Antonio Basile a Pietro Sisto, «Il ’morso oscuro‘ della tarantola”, edito dalla Progedit (Bari 2023), nella collana “Il paese di cuccagna”.

        Diverse sono le interpretazioni che si sono date del tarantismo. Per i più, sulle orme dei medici Epifanio Ferdinando e Giorgio Baglivi, il tarantismo è una malattia da ricondurre ad una sindrome tossica da morso di aracnide velenoso. Per Tommaso Cornelio, i tarantati non sono altro che dei  “dolci di sale”. Per altri invece, al pari del medico Francesco Serao, il tarantismo è una falsa credenza popolare frutto della superstizione. C’è poi chi collega il fenomeno con la  malinconia, e non mancano coloro che, come nel caso dei medici Ignazio Carrieri e Francesco De Raho, lo riconducono ad una alterazione psichica dipendente o indipendente dall’aracnidismo. Ernesto De Martino, invece, grazie ai dati raccolti durante la ricerca sul campo nell’estate del 1959, sostiene l’irriducibilità del fenomeno a disordine psichico, e mette in risalto la sua autonomia simbolica, culturalmente condizionata, cioè un suo orizzonte mitico-rituale di ripresa e di reintegrazione rispetto ai momenti critici dell’esistenza, con particolare riferimento alla crisi della pubertà, e al tema dell’eros precluso e ai conflitti adolescenziali, nel quadro del regime di vita contadino.       

        Superata la fase fondativa degli studi demartiniani, l’indagine sul tarantismo ha conosciuto successivamente un non breve periodo di appannamento e di stasi, per poi avere negli ultimi tempi una nuova fortuna critica, che ha contribuito a dare del fenomeno diverse e più complesse chiavi di lettura, anche alla luce di differenti e originali implicazioni. In particolare, sul piano della ricerca sembra essersi affermata una direttrice di indagine tesa a evidenziare una lettura globale del tarantismo, secondo una visione d’insieme che punta a considerare il fenomeno non più chiuso in una prospettiva semplicemente etno-antropologica, ma come manifestazione culturale di interesse pluridisciplinare (musica, arte, danza, letteratura, storia, medicina, demologia, storia delle religioni, storia delle tradizioni popolari ecc.).

A tal proposito, segnaliamo l’ultimo libro di  Pietro Sisto, Il “morso oscuro” della tarantola, edito dalla Progedit (Bari 2023), nella collana “Il paese di cuccagna”.

Il tarantismo è stato oggetto di numerosi studi che ne hanno esaminato soprattutto gli aspetti etnoantropologici nonché quelli coreutico-musicali e psicopatologici.  Pietro Sisto, docente di Letteratura italiana nell’Università di Bari,  attento studioso del fenomeno, nel suo libro invece, prende in considerazione l’interesse che il rito ha suscitato nei letterati, negli storici, nei naturalisti, nei predicatori,  nei viaggiatori italiani e stranieri incuriositi da una “meraviglia” così inquietante e misteriosa da  dare forza alle parole e alle idee degli scrittori, da diventare metafora  di adulazione e inganno, di principi e cortigiani, del peccato e del demonio,  di arretratezza sociale e di erudite anticaglie. Un’immagine  capace di resistere nel tempo e di andare oltre i confini regionali e nazionali, ben al di là della indimenticabile, demartiniana  “Terra del rimorso”.

Pietro Sisto si sofferma, sulla presenza del “falangio apulo” nella nostra tradizione letteraria, ovvero in testimonianze  che, hanno finito per attribuire al ragno e al tarantismo interessanti significati sia sul piano più propriamente medico-scientifico, sia su quello allusivo e metaforico. L’attenzione si  è focalizzata in particolare sul periodo storico culturale  forse più significativo, quello compreso fra Rinascimento e Illuminismo, ovvero fra due epoche  nelle quali, sia pure per motivi diversi se non addirittura opposti, la tarantola è stata oggetto di ripetute, continue riflessioni, che hanno raggiunto il massimo interesse nel secolo dei Lumi e che perciò possono essere paragonate, per la novità e l’importanza dei risultati conseguiti,  solo a quelle  promosse nella seconda metà  del Novecento dalla famosa inchiesta demartiniana.

        Oltre a mettere in evidenza i momenti più “oscuri” del ”morso”,  l’autore propone in  appendice al volume, non solo gli aspetti iconografici e figurativi, ma anche un’antologia di testi poco conosciuti  o comunque fondamentali per la comprensione dei momenti e dei “nodi” interpretativi più importanti del rito e del mito,  per la ricostruzione di una “tela” più ampia delle diverse, contraddittorie testimonianze sospese tra antichi e moderni, tra dottrina scientifica e cultura popolare,  tra finzione e realtà.

            Nell’antologia dei testi letterari, Pietro Sisto propone degli autori che si sono attivamente occupati del tarantismo, tra questi Leonardo da Vinci, il quale nel Bestiario (circa 1494), affermò che il morso della tarantola bloccava ogni funzione intellettiva,  ogni gesto,  mantenendo  “L’omo nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso”, Guglielmo Di Marra, Girolamo Mercuriale, Teseo Pini, vicario episcopale urbinate che si occupò di vagabondi e ciarlatani, tra i quali figuravano gli “Attarantati”, gli scrittori Giovanni Pontano, Francesco Berni, l’autore dell’Orlando innammorato, i medici Epifanio Ferdinando e Giorgio Baglivi,  i quali per primi hanno descritto il fenomeno partendo da una attenta osservazione medica svolta  “sul campo”. Tra i personaggi, non poteva mancare il Kircher, il quale elaborò la sua interpretazione del fenomeno, all’interno della iatromusica che, beneficiando d’un recupero di tematiche pitagoriche e neoplatoniche, aveva istituito un sistema di corrispondenze simpatiche e di possibili interazioni fra microcosmo e macrocosmo. Convinto assertore  delle simpatie coreutiche-musicali tra uomini e ragni, egli dice: “ciò che suscita grandissima ammirazione è il fatto che (il veleno della taranta), per una certa somiglianza di natura, suscita nell’uomo lo stesso che nella taranta (…) Come il veleno stimolato dalla musica spinge l’uomo alla danza mediante continua eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la taranta”. In proposito, riferisce un esperimento che fu effettuato nel palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei suoi informatori, e di tutti i cortigiani. “La duchessa, – egli scrive -, per mostrare nel modo più adatto questo ammirabile prodigio della natura, ordinò che si trovasse a bella posta una taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto colmo d’acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento la taranta non dette alcun segno di muoversi al suon della chitarra, ma poi, allorché il suonatore dette inizio a una musica proporzionata al suo umore, la bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire  una danza saltellando sulle zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il tempo: e se il suonatore cessava di suonare anche la bestiola sospendeva il ballo”. I padri Nicolello e Galliberto, – prosegue il Kircher -, vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono, in quella circostanza come episodio straordinario, era a Taranto un fatto consueto. Il testo dell’episodio di Andria è riportato nel libro di Pietro Sisto, non manca di riportare le congetture del medico di corte Francesco Serao, il quale nelle sue celeberrime “lezioni”, sulla  tarantola di Puglia, tenutesi all’Accademia delle scienze del Regno di Napoli,  oltre ad “asfaltare” il Kircher ed i suoi seguaci, sostenne con fermezza che “il tarantismo non aveva una origine tossica, perché la tarantola non era velenosa, ma psichica, legata alla forza della suggestione e dell’immaginazione: anche se, non si poteva non tener conto del temperamento e dell’alimentazione dei pugliesi o dello stesso clima”. Con il prevalere del parere dei medici, si faceva strada, una valutazione del fenomeno che era ormai incompatibile con la credenza popolare, in quanto, la dissolveva in parte come “malattia”, ed in parte come “fanatismo”.  Convinto assertore delle teorie del Serao  fu l’erudito Cataldantonio Artenisio Carducci, nobile tarantino, al quale va attribuito il merito di aver pubblicato le Deliciae tarentinae, di Tommaso Niccolò d’Aquino (libri IV con testo, traduzione e commento dello stesso  C. A. Carducci) a Napoli nel  1771.                     Paradossalmente mentre il Carducci,  considerava il tarantismo come una sciocca superstizione, il d’Aquino risente invece, dell’influenza della jatromusica

        A tal proposito,  in alcuni versi delle Deliciae tarentinae, ove riecheggia la musa virgiliana, è manifesta invece,  la convinzione del poeta  sulla pericolosità del morso della taranta e sull’efficacia della musica, ritenuta l’unico antidoto efficace contro questo morbo. Il passo che il d’Aquino dedica al tarantismo è presente nel Libro IV, pp.416, 419. Nella descrizione resa dal d’Aquino, sulla diversità dei sintomi, si può  ravvisare il quadro più o meno preciso e probabile di una crisi di aracnidismo (tremore, convulsioni, delirio, priapismo, ecc…), ma per la credenza popolare, rileva il poeta, questi erano dovuti alla “diversità dei veleni di questi animali, oppure all’equilibrio delle persone che hanno subito il morso” che tendevano ad essere malinconiche. Per il d’Aquino, l’unico antidoto efficace contro questo morbo, non dissimile dalla “possessione”.

        Interessanti infine, i testi degli autori stranieri, presi in considerazione da Sisto, tra questi F. Leopold  Conte di Stolberg-Stolberg, J. H. Von Riedesel, H. Swinburne, il quale ebbe il privilegio di fare a Taranto un corso accellerato di conchigliologia, grazie ai Celestini che lo ospitarono, G. E. C. Hecker il quale fu attratto dalle tarantole del fiume Tara, M. Kahler bravo naturalista, ossessionato dalle tarantole e dalle tarantate tarantine … oltre che dalla sporcizia dei vicoli e delle strade ed infine,  Ferdinand  Gregorovius, il quale apprese dal giovane  Sferra, storico locale, precursore del “copia e incolla”, molto accreditato tra i Signori dell’urbe,  che i tarantini erano appassionati e sfrenati amatori della musica e del ballo, tra i quali con raffinato umorismo, ricordò “il grande Paisiello, anche lui felicemente morso dalla tarantola” (a tal proposito, cfr. Gregorovius, Nelle Puglie, versione dal tedesco di R. Mariano, Barbera, Firenze 1882, pp. 447-448). Bene ha fatto il prof. Sisto a riportare la notizia, ma ci chiediamo … sarà vero?

        La riduzione del tarantismo a malattia da parte dei medici e Il tentativo del cattolicesimo ufficiale di farlo rientrare nel culto di san Paolo, soprattutto nel Salento favorirono indubbiamente il lento declino del fenomeno.

a.b.

Data: lunedì 4 Marzo 2024
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