La ricerca senza fine della città ideale, tra utopie e speranze: il libro di Giandomenico Amendola
Di Eugenio Lombardi
GEN 24, 2023
Ai tanti pensatori che hanno voluto cimentarsi in un’analisi del significato storico di “città”, per poi provare a immaginare una evoluzione dei modelli disponibili, si è aggiunto con grande maestria il prof. Giandomenico Amendola, sociologo di fama e attento osservatore dei costumi urbani, con un volume edito nel luglio dello scorso anno dalla Progest.
Tanti i riferimenti a città ideali, desiderate, utopiche e alle illusioni che da sempre hanno accompagnato i loro abitanti nel provare a renderle più belle, più produttive, più adatte all’accoglienza e di volta in volta più identitarie o più cosmopolite. Il desiderio di città: quella che nel corso dei secoli utopisti, idealisti e sognatori immaginavano e talvolta riuscivano a realizzare, per poi magari scoprire che mancava ancora qualcosa. Il diritto alla città: quello formulato da Henry Lefebvrenegli anni del 1968 francese come sintesi politicamente rafforzata del desiderio di città. La città ideale trova la sua massima espressione nel Rinascimento toscano ed ebbe quale progenitore Platone. È la città lontana da noi e nelle cui memorie ritroviamo un amore perduto, una condizione a noi più favorevole, la sorpresa della scoperta.
Ci eravamo adattati ad accettarla, la nostra città, pur facendone luogo di speranze mai venute meno; poi, ci dice Amendola, ci siamo all’improvviso trovati ad osservarla attraverso una finestra, impediti dalla pandemia nel movimento, nell’incontro, nell’azione. I sogni, i desideri si sono risvegliati, dando colore e gusto all’artificio dei contatti via internet o dei forzati rapporti condominiali. E una volta tornati fuori, è riesplosa la voglia di città, pur con le sue debolezze e fragilità, fino a scoprirla come se fosse diversa, perché diversi erano i nostri sguardi.
È allora il desiderio lo strumento utile a farcela accettare, mettendo da parte l’immaginario, l’impegno al miglioramento, l’utopia? C’è un filo conduttore che supervisiona l’interpretazione della città: la presenza umana. La “città ideale” di Platone vede i suoi fondamenti nella comunità; in “Utopia” di Tommaso Moro sono le persone (humanitas) a decidere forma e organizzazione delle proprie città e il futuro dell’uomo è costruito dall’uomo stesso, in quella città ideale che il Rinascimento fiorentino inventa e propone al mondo.
È la città che, per la prima volta viene immaginata e progettata prima di essere costruita. Dietro le splendide forme urbane e architettoniche rappresentate nelle spalliere di Urbino, Baltimora e Berlino non c’è la mano di Dio, ma il desiderio e la cultura degli uomini.
In uno stretto e costante rapporto tra ragione e desiderio, si snoda nei secoli la storia dell’utopia segnando la filosofia, l’arte, la letteratura e l’architettura, portando dal Settecento in poi a immaginare e tentare di costruire città definibili come ideali. Più sono dure le condizioni di vita e più l’utopia trova spazio e viene alimentata da grandi pensatori.
Il termine “città ideale” pare oggi passato di moda e non è facile trovare indicatori universalmente accettati per definirne le qualità. La città contemporanea è fondata sulla domanda. In questo aiuta, ed è più volte riportata nel volume, l’arcinota frase di Italo Calvino che nel romanzo Le città invisibili fa dire a Marco Polo:
Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà alla tua domanda.
La città contemporanea deve dare risposta anche ai desideri vari, diversificati e mutevoli della sua gente: felici sono gli abitanti se la città è in grado di rispondere alle loro domande. Si entra allora più in profondità nella interpretazione dei vari tipi: la città impresa, tesa alla competizione; la città spettacolo, quella scintillante dei consumi; la città delle differenze, in cui la convivenza segna la capacità di inclusione nella civitas; la città alla carta, in cui ognuno cerca di intagliarsela su misura delle proprie personali esigenze; infine, la città bella, che rappresenta, come scriveva Pier Luigi Cervellati, «la rivincita delle muse».
La qualità dello spazio urbano, a partire da quello architettonico, è tematizzata e la bellezza della città è oggetto di una domanda esplicita non più espressa solo da un numero limitato di anime belle, ma da grandi numeri di cittadini.
Ma che spazio offre questa Bari per la partecipazione (più volte richiamata da Amendola), l’immaginazione, il sogno, l’utopia? Sono cambiati i tempi e forse per questo ormai ci si riconosce più in una somma di individui che come componenti di una comunità, abdicando al diritto-dovere di partecipare e lasciando che l’espulsione dalla città delle sue aree marginali assumesse contorni sempre più netti e difficilmente recuperabili. È un processo partito già negli anni Settanta, ma che oggi lo sviluppo distonico di Bari ha reso molto evidente. Oggi è l’offerta a condizionare il rapporto degli abitanti con il proprio luogo di vita e ben poco valore viene dato all’esperienza, per secoli elemento vitale nello sviluppo della città con la sua storia, la sua identità e il costante trasferimento di conoscenze. L’offerta è diventata l’elemento prioritario, sostituendosi ai desiderata dettati dalla ricerca della diversità. Bari, un tempo luogo di accoglienza, pare aver optato per un modello di città omologata proprio mentre tornava ad essere cosmopolita. La politica ha scelto, tra i modelli possibili, di farne una città spettacolo, limitando coscientemente la sua dimensione intelligibile e individuabile alle sue parti più identitarie e storicamente consolidate.
Il resto lo fa la narrazione istituzionale, che si è sostituita ad aspirazioni, desideri, utopie. Il tutto annaffiato dalla prospettiva, che taluni progetti pretendono di rappresentare, di un avvicinamento all’agognata Europa, quasi nella consapevolezza che i desideri, i sogni, le utopie in ognuno di noi portino a ritrovarci prima o poi in una città capace di confrontarsi con altre realtà, conosciute magari in vacanza o come luogo temporaneo di vita.
Bari raccontata all’esterno è bellissima, dedita al permanente divertimento, dove tutti vivono felici (la città felix) per situazione produttiva, economica, ambientale, sociale, di sicurezza. È la città alla carta che risponde perfettamente alle domande dei cittadini, tranne sorvolare sul fatto che il loro diritto-dovere di esprimersi attraverso la partecipazione per condizionare le scelte istituzionali è stato sostituito da un’ansia da prestazione, che porta gli amministratori a decidere per essi e a definire quali siano, senza saperlo, i desiderata della comunità. Eppure, per decenni, almeno fin dal 1968, la partecipazione era stata l’elemento fondativo delle politiche urbane in tutta Italia, tanto da sentire il bisogno di sostituire i piani urbanistici di vecchia tradizione con i PUG (piani urbanistici generali), più disponibili ad aprirsi alla partecipazione delle comunità locali e a registrarne gli umori, le esperienze, le aspirazioni.
Se nella Bari storica le diversità della propria gente rappresentavano una straordinaria ricchezza, ancora oggi testimoniata dalle contaminazioni stilistiche presenti nelle architetture, nella città contemporanea la storia è elemento di disturbo all’assalto edificatorio omologante, consegnato nelle mani di poche imprese e professionisti esonerati dal passare per un confronto progettuale e quindi qualitativo.
Questo vale anche e specialmente per la pianificazione urbanistica, messa da parte sostituendo l’utopia di una città ideale con una dei calcoli economici di pochi per pochi. È venuta meno la dignitas urbi tanto cara a Cicerone. Soprattutto, è venuta meno la speranza in quel sogno che esperienza e conoscenza rendono realistico.
E il pensiero conclusivo, ripreso dal prof. Giandomenico Amendola, «È possibile costruire un sogno se il sogno è sognato da tutti”, ci riporta all’amara realtà di una città che vive dell’artificio offerto ai propri cittadini dalle fiction televisive ed in cui l’unica opzione ammessa è quella dell’incondizionato apprezzamento di ciò che altri hanno pensato per noi. Vietato sognare.