Clicca qui per accedere alla fonte e al blog
Leggere il vuoto per fare il pieno!
UNA GIROVAGA SENZA META · MARTEDÌ 20 NOVEMBRE 2018
Ci sono giorni in cui mi sento particolarmente grata alla Vita e quelli sono i giorni in cui, spesso, non ringrazio tanto per i doni che mi sono stati concessi ma per quelli concessi agli altri, in particolare agli amici sparsi per il mondo che mi rendono una girovaga molto orgogliosa!
Proprio ieri, ho avuto la fortuna di essere presente in casa di Maria Laterza alla presentazione del libro Un vuoto nella pancia della mia amica Francesca Sivo, edito da Progedit ed illustrato da Aurelia Leone, per ascoltare di persona non solo com’è nato questo progetto ma anche quale scopo si propone.
È bello pensare che l’incontro fortuito e “casuale” tra donne che forse aspettavano solo di “inciampare” le une nelle altre, abbia generato una storia che non riguarda solo i suoi protagonisti (che, non a caso, non hanno né volti né nomi identificativi) ma tutti noi, poiché come ha giustamente sottolineato l’editore Gino Dato nella sua introduzione, è necessario – oggi più che mai – “rappresentare in forma di diritto l’esigenza di saper comunicare con i bambini per spiegar loro alcune geometrie delle nostre famiglie moderne che non hanno alcuna simbologia passata per esser raccontate” (si pensi alle adozioni, alle separazioni, ai divorzi, alle famiglie allargate, a famiglie che vengono da lontano e che hanno altri usi e tradizioni) e dunque gli editori, come tutti quelli che si occupano di comunicazione, dovrebbero assumersi questa responsabilità per offrire questa possibilità.
Non è casuale nemmeno che prima ancora di essere tradotto in parole ed immagini, il libro nasca nel profondo dell’animo dell’autrice, frutto non solo della sua esperienza personale ma anche della sua straordinaria empatia e dalla conseguente necessità di sensibilizzare alla comunicazione, per evitare che ci si senta esclusi solo perché diversi e per permettere di capire quanto ciascuno di noi sia unico con la sua storia personale.
E dunque il testo è la ricerca di senso per riempire uno o più vuoti reciproci che, se ben indirizzati, possono diventare volano per realizzare ricami di incontri, di confronti, semplicemente d’amore e non solo tra figli e genitori ma anche e soprattutto tra alunni ed insegnanti (che, dopo i genitori, sono le seconde figure di riferimento di ciascun individuo; si pensi a quanto un maestro o un professore influenzi il nostro rendimento e le nostre scelte non solo insegnando, ma semplicemente essendo se stesso relazionato a noi! E questo Francesca, che è donna, moglie, mamma e ricercatrice universitaria appassionata di letteratura medievale antica lo sa bene).
Il sottotitolo del libro (che a mio avviso giustamente non compare in copertina proprio perché questa tematica riguarda tutti noi adulti che possiamo essere “maestri” ed educatori) è proprio “Lettera a una maestra”, a indicare la necessità di ciascun bambino di avere un interlocutore che si segga e semplicemente ascolti la sua storia, soprattutto quei vuoti, quei silenzi e quei pesi generati non soltanto dal suo percorso individuale ma anche da una scuola arroccata su programmi e metodologie ancora troppo poco al passo coi tempi e con l’evoluzione della società.
Ho letto il libro circa due mesi fa e l’ho riletto ancora non solo perché si legge davvero in poco tempo, ma perché è una storia struggente e densa di emozioni anche contrastanti che hanno bisogno di essere custodite, metabolizzate e comprese nel profondo.
Di tutti i passi del libro, ce n’è uno che mi piace condividere proprio oggi che ricorre la Giornata Mondiale dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (in ricordo della Convenzione del 1989, con la quale ogni stato si assume l’impegno di proteggere i minori) ed è proprio quello iniziale, tra pagina 5 e pagina 8: «[…] Lo vedi quel vaso di terracotta sul prato? L’altra mattina il custode della scuola ha sentito un lamento. […] Sembrava il miagolio di un gatto. […] All’improvviso due testoline bianche e nere sono spuntate dal bordo del vaso. […] Erano due i gattini. Piccolissimi. […] Ed erano soli. La loro mamma non si è mai vista finora. Chissà dov’è finita e chissà se mai tornerà. Sai, maestra, ora ci pensa il custode ad allattare quei due gattini. Ci ha spiegato che li allatta con un biberon, perché sono ancora molto piccoli e non riescono a mangiare da soli».
Mi piace pensare che quei due gattini siano ogni bambino che incrociamo nella nostra quotidianità e che tutti ne siamo custodi, perciò sforziamoci di porre attenzione alla loro esistenza, allo loro presenza, al loro miagolio perché (citando l’evangelista Luca) non ci venga rimproverato “vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto”.