Le molte storie, umane e sociali, nel romanzo di Pasqua Sannelli: “Il dono della nuora”. Recensione di Michele Cristella

Le molte storie, umane e sociali, nel romanzo di Pasqua Sannelli: “Il dono della nuora”. Recensione di Michele Cristella

Le molte storie, umane e sociali, nel romanzo di Pasqua Sannelli: “Il dono della nuora”

Un fiore per il suocero, testimone di libertà
La masciara, la zingara carismatica
il rosario dopo la tentata violenza
il marchese che si riconosce un vinto
Il maestro che picchia l’alunno perché povero
Il paese luogo di un tempio della Catarsi e della Nemesi
Non una storia a lieto fine, ma una storia immanente
L’invincibilità di chi rivendita il diritto-dovere del rispetto reciproco
Il témenos.

Il romanzo di Pasqua Sannelli, “Il dono della nuora”, 256 pagine, edito da Progedit, 15 €, coprtina del pittore Antonio Giannini, è molte storie: quelle di un paese e quella di un uomo e dei suoi. Storie che sgorgano dalla notte dei tempi e, dopo i violenti soprusi fascisti e la guerra, si concludono alle “otto e trenta spaccate” del 2 giugno ‘46, nel giorno d’inizio della civiltà in Italia, e nel mondo, com’è l’albeggiare del nuovo giorno nella pace, dopo il buio della notte, o il ritrovarsi persona dopo essere stati cose.
Nelle sue pagine Sannelli dà vita a più mondi: una donna che sa scegliere erbe e guardare lontano, un tutt’uno con la Natura, una “masciara”, stregona capo del suo villaggio; una zingara ritenuta capace di ogni sortilegio, un vero e proprio carisma, “addvnatrisc” di futuro e nascite gemellari e profetessa di sventura, come il terremoto e la guerra, che scompare nel nulla per apparire sola e lontano, fantasma nella gloria, dopo aver soggiogato i suoi maschi perché restassero in paese, malgrado l’estraneità civica fosse già serpeggiante razzismo, per abbattere le diversità etniche, o razziali, e integrarsi nel nuovo mondo, pur in un lento scorrere del tempo; un minuto e indomito antesignano della resistenza passiva nel difendere il suo sacro diritto ad essere se stesso, cioè libero, diritto calpestato dai facinorosi e sospeso dai più per adeguarsi al fluire di idee e mode, anche se sacrileghe; e la sua donna che accetta, calmieratrice e silenziosa, d’un silenzio religioso, l’esilio casalingo del marito e va a cercare lavoro e resiste alle profferte d’amore prima e al tentativo di violenza carnale poi, dissolvendo in un rosario l’umiliazione patita; la pagina coinvolgente del maestro che picchia con selvaggio sadismo il più povero dei suoi alunni, proprio perché povero, ragazzo che si fa picchiare, fino al cedimento degli sfinteri, senza reagire, per addormentarsi dietro la lavagna e addormentarsi un po’, finalmente; maestro ammaestrato, costui, che capisce l’abiura alla libertà in punto di morte nella follia della guerra; la rumorosa e ilare fatuità dei gerarchi fascisti; infine la giovane nuora, che esce dal futuro per consegnare al lettore il senso del romanzo: il grazie delle nuove generazioni a chi ha dato luce e nerbo e coraggio all’intangibilità del diritto a vivere liberi, con il più semplice dei gesti, e perciò di sublime eloquenza: l’infilare un garofano rosso nell’occhiello della giacca del vecchio e stanco suocero, nel giorno della celebrazione della sua impercettibile quota di vittoria: andare a votare, a scegliere l’idea e gli uomini per costruire un futuro dignitoso per tutti. Intorno a questi protagonisti s’agita il piccolo mondo quotidiano, eterno perché immutabile: l’ira fiammeggiante e labile delle donne vessate dal potere, la corruzione del pubblico funzionario, il benestante illuminato, il bolso mondo degli scomparsi feudatari, il cui ultimo capo, un po’ da cavaliere feudale, un po’ da uomo di mondo, riconosce la sconfitta del suo ambiente e la vittoria dei derelitti.
Le pagine della Sannelli si rincorrono fra loro: la storia è incalzante, non ha soste e la prosa è ad un tempo essenziale e densa. Come i suoi personaggi che vengono dalla notte dei tempi, così il linguaggio dell’autrice dà al lettore parole sapide e profumate, che si fanno rileggere per riassaporare, in questo tempo banale, la bellezza della lingua natia, affinata dai millenni. Infine il paese, coprotagonista del romanzo: con i suoi vicoli e le sue case; il Palazzo e il sagrato della chiesa, dove si scambiavano furtivi sguardi amorosi, bastevoli per un fidanzamento; la fontana e le brocche e la sua sdrucciolevole salita per tornare a casa; il chiasso dei ragazzi e il cicaleccio delle donne, lo sgretolarsi per le scosse del terremoto. Questo paese, nel quale tutti sanno tutto di tutti, è un vero e proprio rinato “témenos”, un luogo riservato a un tempio, per lo più ad Apollo, presso l’antica madre di queste terre desolate e fertili, la Grecia. E qual è stato il dio di questo indistruttibile “témenos”?
Non il dio del Sole, ché la fatica di vivere è sempre immersa nel buio, ma la Nemesi e la Catarsi: la punizione attraverso la scomparsa, quasi “damnatio memoriae”, di quanti, per la loro servile e avida vanagloria avevano inflitto torti agli innocenti, il ripristino della giustizia per le loro vittime; e la purificazione, l’emersione di Luigi dalla fangosa palude dell’emarginazione e dell’esclusione. Da una parte la scomparsa nelle ultime pagine di quanti evitavano Luigi, dall’altra la sua immensa immagine: l’antifascista gracile e solitario che, con l’abito nuziale, il solo che aveva, aspetta seduto, come in trono, per andare insieme con i suoi al seggio elettorale, quasi un corteo trionfale, racchiude in sé tutta la narrazione.
Il paese coprotagonista perché ha incubato in sé, in una lotta fra il bene e il male e lo restituisce ai suoi e al mondo, un testimone della libertà. Il nuovo giorno, dissoltisi tutti gli altri, sorride al protagonista, a Luigi che, con l’esilio in casa e l’affettuosa solidarietà dei suoi familiari, aveva sfidato il potere e i suoi scherani. E sorride, questo luminoso giorno, alla nuova generazione, ispirando un sol gesto, di infinitesima semplicità e infinita affabilità.
La nuora osa una profanazione: toccare il suocero, ma con un fiore, per ringraziarlo d’essere stato padre, non solo di suo marito, ma dell’umanità, subendo in silenzio e aspettando, paziente e compassionevole, che finisse l’oltraggio di chi s’illudeva di poter riempire il proprio vuoto interiore con effimeri pennacchi.
Non una storia a lieto fine, questa di Sannelli, ma una storia immanente, tanto più grandiosa quanto più i suoi protagonisti, pur soli, avevano in sé l’invincibilità di chi rivendica il diritto al rispetto, perché il reciproco rispetto è il primo dei doveri d’ogni comunità.

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