VERSI A TEOCRITO: UNA GEMMA IN QUATTRO LINGUE
Un artista, un poeta può avere la funzione di arrichire la visione della vita, condividendo con noi lettori un frammento della sua esperienza emozionale e nel contempo farci riflettere sulla faticosa ricerca della conoscenza e sull’inquietitudine del dubbio, mitigata soltanto dalla parola profonda della poesia. Ed è ciò che fa Anna Santoliquido con l’ultima sua pubblicazione, un poemetto in versi dal titolo Versi a Teocrito (Progedit, 2015), contenente le traduzioni in quattro lingue, con il quale ci rende partecipi di un momento di turbamento, di sensazioni “che innalzano e sotterrano”, vissuto nel 1991 a Delfi, durante il X Congresso dell’Organizzazione Mondiale dei Poeti.
A me, docente di lingue e traduttore, si chiede di sofferarmi su alcuni aspetti linguistico-traduttologici. E, tuttavia, prima di affrontare l’argomento della traduzione, non posso non esprimere alcune considerazioni su questo piccolo gioiello, che si aggiunge alla vasta produzione della scrittrice. Piccolo sì, una gemma sì.
Sì, piccolo, – infatti, ad una prima lettura il poemetto si presenta molto breve nei suoi novantasei versi, divisi in ventiquattro quartine, ognuna delle quali non supera le venti parole.
Sì, una gemma – per il vigore poetico con il quale Anna Santoliquido ci propone quest’opera a partire dall’apparato compositivo; infatti, la forma ridotissima dei versi sembra quasi indicarci che nel suo fare creativo la scrittrice proceda operando per sottrazione a favore di una adamantina concisione, generatrice a sua volta di un’energheia che pervade gran parte del poemetto, fino a raggiungere nella ventesima quartina il crinale della metamorfosi, testimone a sua volta di cambiamento tematico-stilistico. Brevità e concisione che si reggono sull’essenzialità della struttura soggetto/verbo/complementi, (inevitabili, ma incastonati con estrema parsimonia). Pochissimi gli aggettivi; su un totale di circa quattrocento parole, sono solo dieci gli aggettivi; un unico avverbio temporale, ma di cospicuo rilievo.
E’ sufficiente, infatti, leggere i primi versi del poemetto, per percepire la forza di quell’mperativo “ascolta” rivolto a Teocrito, tutto proteso a fermare il poeta greco. Un Teocrito in fuga? Un Teocrito che si nasconde? Quella stessa voce, che nelle quartine successive incalza in tono di aperta sfida – “ti stanerò”, “userò…il fulmine per raggiungerti”, “ti troverò”, fino a quel formidabile “sei tu Teocrito?” “mi riconosci?” della sedicesima quartina, che sancisce la presenza della poetessa nel luogo pù sacro della poesia, “tra le mura di Apollo”, Delfi. E, al contempo, ne afferma l’identità di poeta in grado di “secernere versi”. E noi, lettori, siamo resi partecipi di tale inseguimento, che ben presto si trasforma in un viaggio di conoscenza, proprio grazie alla forma che, pur nella vigile economia compositiva, l’opera assume grazie alla succesione di versi risonanti di echi, richiami e rimandi al misterioso universo delfico, in un vorticoso gioco di “tegole di storia”, e di “frange di fantasia”.
E’ come se il poemetto fosse percorso dall’intreccio di due linee compositive. Una, costruita intorno all’io della voce poetica, che ora è Demetra/Persefone, conciliatrice delle opposizioni; ora è Pizia, la veggente che “mastica l’alloro” nel decifrare i vaticini, ora Sibilla nell’atto della profezia. Voce che opera nel tempo; dal passato trasporta memorie di un’intera civiltà, vive intensamente il presente, si impadronisce del futuro.
La seconda linea, più narrativa, ci guida nel ‘quando’ e nel ‘dove’ dell’agire poetico mediante un’ardita fusione fra silenzi echeggianti delle voci di poeti e filosofi – Omero, Talete, Anassimandro – e il luogo delfico, in cui ogni pietra, ogni rovina è depositaria di miti e riti menadici, misteri, voluttuose danze, oracoli e orge baccanali. Il tutto, in un indefinibile e immutabile presente narrativo senza tempo, nella fumosa grotta dell’Oracolo dove Pitone, il drago/serpente è stato ucciso, perché Apollo possa parlare.
E qui, nella grotta sacra, solo dopo il coinvolgente rito di purificazione, non privo di momenti terrificanti, alla presenza inmmobile e “pensosa” della Musa che assiste e giudica, solo in quell’ “ora” della ventesima quartina, si compie la metamorfosi di colei, che pellegrina in questi luoghi sacri, verso “nosce te ipsam”: si spoglia del suo involucro e libera la farfalla, la splendida creatura alata, messagera di bellezza racchiusa in ogni voce poetante, mentre la messa a punto temporale di quell’ ”ora”, così presente e così remota, se da un lato rimanda ad un momento intensamente vissuto nel paesaggio mediterraneo, trapunto di teneri olivi e avvolto nella dolcezza di un lontano ottobre, dall’altro fa riapparire anche tutti gli onnipresenti “imbarazzi”, le incertezze, i dubbi di un’anima consapevole dell’ineluttabilità di altre innumerevoli metamorfosi da venire, eppure certa che la parola poetica, consacrata in un viaggio di conoscenza e protetta da Saffo e dai Serafini, può, e forse deve, continuare a evocare l’eredità ricevuta dal passato, interrogando, al contempo, la pienezza del presente.
E quale è il compito del traduttore quando deve affrontare la traduzione della materia poetica che riceve dal testo nella lingua di “partenza”? Quando cioè l’urgenza del processo creativo risulta in una composizione complessa, di per sé semanticamente “oscura”, “opaca”, strutturalmente multiforme, e soprattutto, portatrice, pur nella sua smisurata potenzialità di interpretazione, di un esito unico, irripetibile e irrinunciabile? Bisognerebbe, per dirla con John Berger, tornare al “preverbale, raggiungere, toccare la visione o l’esperienza da cui sono scaturite”. La traduzione lungi dall’essere la semplice trasposizione di parole da una lingua all’altra, si muove in un universo multiforme, anche se ci pare che la spinta a ‘traducere’/ trasportare il senso sia ‘spontanea’, congenita a tutti noi in innumerevoli momenti dell’esistenza: traduciamo/trasportiamo segnali in azioni, traduciamo i pensieri in espressioni, traduciamo spinte psichiche in gesti, traduciamo, mediante la griglia della creatività, il groviglio di emozioni e reazioni, impressioni, stupori e suggestioni in opere d’arte.
Tanto più difficile quest’operazione diventa, quando l’arte in questione è un’arte verbale, come la letteratura nel senso più ampio (oralità e scrittura) e appunto la poesia. Il traduttore, questo artigiano delle parole, deve affinare i suoi mezzi interpretativi; a partire dal leggere e rileggere l’originale, dall’immaginare tutto ciò che sta dietro e intorno al testo, per poi togliere la delicata materia poetica dalla calda e rassicurante culla della lingua materna e adagiarla in una lingua altra, diversa, straniera. Si pone, insomma, inter/fra le due realtà linguistiche, alla ricerca dell’indispensabile (e non sempre possibile) equivalenza di senso/significato, senza perdere il controllo né della complessa stratificazione del testo da tradurre, né della lingua ospitante, in un gioco a tre.
Prima di discutere le traduzioni in quattro lingue; Greco Inglese Tedesco e Russo, che accompagnano il poemetto, una piccola confessione; non conosco il greco, ahimé, e ciò mi priva del piacere di ascoltare i versi “a Teocrito” nella sua lingua. L’inglese, da molto tempo, è stato, ed è, il mio ‘pane quotidiano’ per lavoro, per formazione, per interesse; con il tedesco “me la cavo”; il russo, pur avendolo colpevolmente trascurato per tutta la vita, risuona ancora in me, riportandomi all’infanzia e ai primi anni di scuola. Qualcosa deve essere rimasto.
Quanto alle traduzioni, è veramente da sottolineare la sensibilità nel mantenere nella traduzione per musicalità del verso, scelta dei termini, costrutti e strutturazione del verso, quell’aura oracolare della grecità arcaica, rendendola ad un tempo ‘contemporanea’ ad un io poetante nel presente.
Una prima osservazione di carattere generale: rispetto all’originale italiano, i versi tradotti appaiono più lunghi, forse a scapito della concitata brevitas dell’originale. In inglese e tedesco ciò è dovuto a elementi strutturali, quali inserimento di pronomi personali soggetto (in italiano il più delle volte non compaiono), un uso frequente di aggettivi possessivi, ausiliari (don’t/werde), prefissi, suffissi, preposizioni (verbi fraseologici). Nello slavo, invece, la costituzione stessa della lingua porta a particolarità morfologicihe, spostamenti semantici, variazioni del ritmo.
In particolare, nella traduzione in inglese, la grammatica gioca un ruolo di rilievo. Infatti, la presenza obbligatoria (si premette sempre il soggetto al verbo) di quell’I=io, pronome di prima persona, tende a rafforzare la fiera affermazione dell’io poetico, mentre l’unica forma dell’articolo determinato the accresce, nella ripetività ritmica di uno stesso suono, la concitazione di certe quartine. Altrettanto interessante sembra osservare come la lettera “S”, che segnala la terza persona del presente indicativo (fra altro, unico tempo diffuso nel poemetto, se si esclude qualche raro futuro e soltanto un passato prossimo) favorisca una certa musicalità interna. Molto funzionale ad una traduzione ‘fedele’ in senso lato risulta essere anche la scelta di parole derivanti dal latino e dal greco, piuttosto che dall’anglossassone, il che non solo svela la complessa sedimentazione della lingua inglese, ma anche ne rimanda l’orologio semantico indietro nel tempo, a sottolineare di quanto siamo debitori a quella’antica civiltà.
Per quanto riguarda il tedesco, la necessità di collocare i prefissi dei cosìddetti verbi separabili, alla fine della frase, così come la necessità di porre alla fine delle proposizioni secondarie le varie forme participiali, infiniti retti da ausiliari, se da un lato certamente produce l’allugamento dei versi, dall’altro ne ricrea la dinamica ritmica e la cifra “classicheggiante” dell’originale.
In russo, farò cenno solo ad alcuni aspetti lessicali dai risvolti interpretattivi: per esempio, la traduzione dell’aggettivo italiano “sadico” che in russo diventa (scelta del traduttore?) “non farti del male”. Altri esempi: in russo non viene adoperato il verbo essere al presente indicativo, il che pare sottrarre al primo verso della ventesima quartina il potere dell’autoaffermazione, diventando in questa lingua “ora io farfalla”; similmente, poiché la lingua russa è priva del verbo “avere” nell’accezione di “possedere”, si ricorre alla locuzione “u minia” (presso di me [è]), come nel verso “non ho scudo / né elmo” e mentre l’italiano degli ultimi due versi del poema, “ho Saffo al fianco/ e stuoli di Serafini sulla testa”, dove il soggetto è “io”, e Saffo e Serafini sono in posizione di complemento oggetto, in russo i versi sono tradotti con una mutazione sintattico/semantica, corrispondente a “intorno a me [è] Saffo/e stuoli di Serafini [sono] sulla testa”. Ora Saffo e i Serafini appaiono come magnifici soggetti (anche grammaticali) a guardia e protezione di un’anima che, pur
umanamente presa dall’esitazione del finale “non so”, non esita ad affrontare uno dei più grandi poeti della Grecia antica.
Infine, qualche parola sulla traduzione di quell’“a” premessa al nome Teocrito nel titolo dell’opera.
In italiano, nella sua molteplicità di significati (termine, destinazione, luogo, e altri) la polisemia di questa preposizione è molto densa, e incorpora anche il rapporto di paragone. Anche in inglese la preposizione “to” contiene nel suo spessore semantico il significato di aperto confronto: quasi a svelare l’intento del poeta a misurarsi con il gigante greco, laddove il tedesco privilegia la preposizione “an” che all’interno del suo non molto vasto campo semantico presenta anche la definizione, come da dizionario, di “hinsichtlich” (‘(in) quanto a’; con certi verbi cogitandi indica l’oggetto del pensiero, ricordo), sfiorando ancora una volta il significato di accostamento, confronto, in ogni caso di vicinanza.
Il russo ricorre al semplice dativo, che assume il cosiddetto valore “etico” quando rileva il particolare interesse per ciò che viene veicolato. Anche in questa traduzione, allora, riappare il modo di affrontare Teocrito, intessuto questa volta di interesse e di competizione mista a fascinazione.
Molteplicità di significati contenuti nella minuscola preposizione italiana, che pone l’interrogativo: i versi sono destinati/offerti a Teocrito? O, piuttosto, rinviano alla sfida dei primi versi?
Sono queste solo alcune esemplificazioni del lavorio interpretativo dei traduttori, ma che ci svela come il volume Versi a Teocrito raggiunga, nelle traduzioni e grazie alle traduzioni, una sua unità e identità di libro, che, se letto, se ‘raccolto’ e accolto nella sua interezza, accompagna noi lettori nel viaggio di conoscenza e ci induce ad esplorare insieme ad Anna Santoliquido “un lembo della terra di Omero e gli abissi dell’animo”.
Bari, 9 ottobre 2015
Graziella Todisco
Università di Bari