Fonte: qualadagietto.wordpress.com
RECENSIONE DI CHIARA ZAMBONI
Chiara Zamboni
Un testo ironico sulla polifonia della complessità
Franco Botta ha scritto L’arte dell’imprudenza. Dialoghi e lettere segrete (Progedit ed.), testo leggero e ironico, che si muove per via obliqua.
È diviso in due parti. Il titolo trae spunto dalla seconda parte che pone al centro la questione se in un mondo complesso e non progettabile sul lungo periodo, com’è questo nostro, sia meglio la prudenza, la reticenza allusiva, la strategia del non dire tutto per navigare nelle acque di un mondo che ormai ha perso ogni mappa, oppure non sia meglio proprio l’opposto e cioè l’imprudenza che rischia sapendo cogliere l’occasione con sagacia, proprio a causa della complessità che impedisce il progetto di lungo periodo. Tentando così una scommessa al rialzo con la realtà.
La forma adoperata nella scrittura di questa parte è quella delle lettere private. In modo trasparente prende a modello le lettere a Lucilio di Seneca. Questo non solo nello stile di scrittura, che è pacato e sostenuto da un animo aperto e ragionante, ma anche per il fatto che l’interlocutore rimane sullo sfondo, non ne leggiamo le risposte. A questo primo blocco di lettere, che valorizzano la prudenza, seguirà un altro blocco di un diverso personaggio, che argomenterà contro la prudenza in uno stile simile, ma più incalzante. Il ritmo della prosa è per frasi brevi e chiare, circostanziate.
Per una serie di incastri o scatole narrative dentro ad altre scatole narrative le prime lettere sono scritte da un professore di filosofia che ad un certo punto della sua vita si è licenziato per fare il cuoco passando da un’arte della parola saggia ad un’altra arte che richiede prudenza e capacità di tenere certi segreti. Le altre lettere sono scritte da un avvocato che interloquisce con il filosofo cuoco dimostrandogli che anche lui ha corso un rischio, un’imprudenza, licenziandosi, così come il rischio, la scommessa fa parte del proprio lavoro di avvocato.
Completamente diverso il tema della prima parte del testo anche se rimane sottotraccia la querelle su una pratica prudente o imprudente di vita. Le questioni sono quelle del Mezzogiorno e del Nord Italia visti come le due facce della stessa medaglia, in quanto create dal medesimo movimento istituente. Avvenimento storico sorretto da un desiderio che ora nel Nord Italia viene meno. Che ne sarà? Si può aprire la possibilità di altre prospettive, già operanti de facto ma non riconosciute simbolicamente, come la divisione tra un modello adriatico e uno tirrenico di coagulo economico, culturale tessuto in modo diverso? Che ne sarà dell’Europa, se non segue un’autoriforma federalista?
Ritrovo qui i grandi temi che Franco Botta, economista, da diversi anni dedica alle questioni che riguardano lo scambio di merci, cultura, lingue, idee e finanze tra una sponda e l’altra dell’Adriatico, impensabili con intelligenza se non in un quadro di riferimento politico europeo e mediterraneo. Ma quel che colpisce nel testo è, ancora una volta, lo stile di scrittura scelto. In questo caso quello del dialogo. Dialogo e lettere, a mio modo di vedere, sono qualcosa di più di un semplice modo indiretto ed efficace di affrontare temi importanti.
Questo sarebbe in realtà la posizione dell’autore, che nell’introduzione sostiene di aver scelto intenzionalmente una scrittura lieve per parlare di grandi questioni in modo accessibile. Ma l’effetto complessivo del libro non è quello di essere uno scritto divulgativo. Non si tratta solo dell’aver scelto i dialoghi e le lettere ma attraverso la rete polifonica di voci messe in campo viene espresso indirettamente un certo sguardo sul mondo.
Cercherò di spiegarmi analizzando la prima parte. In prima battuta siamo di fronte ad un gioco di quinte e sfondi come in un teatro. Ci troviamo in una masseria che ospita turisti in una estate accogliente. Il dialogo tra i due interlocutori principali si svolge nell’agrumeto, ma ecco che siamo partecipi anche del fervore di vita che si svolge nell’orto separato dall’agrumeto da una siepe, da un niente, se vogliamo, che divide e mette in rapporto microcosmi di esistenze completamente diversi. Solo le voci filtrano attraverso il verde che nasconde lo sguardo.
Nell’agrumeto due ospiti della masseria, un barese e un milanese, parlano dell’Italia, del Mediterraneo, del federalismo europeo. Nell’orto il cuoco macedone ascolta e registra per imparare le lingue e poi confabula con le sue due aiutanti, una albanese e una sedicente ungherese, se questo può avere conseguenze. Sono degli irregolari, lavorano senza permesso di soggiorno, mentre i due del dialogo sono uomini d’affari. In questo teatrino, come nel Sogno di una notte di mezza estate, gruppi umani diversi vivono vicini, separati dal niente di una siepe, ma concentrati nel loro mondo di interessi e linguaggi differenti. Da tener conto che c’è un altro scenario in mezzo a loro: quello di un barbagianni, che apparentemente interagisce con gli umani, e in realtà segue la propria logica di uccello, assieme al profumo dell’agrumeto e dell’aria della notte. È un terzo scenario, che solo a prima vista è in relazione agli altri due, ma di fatto segue un logos, una ragione propria, indifferente a quella umana.
Sono arrivata così al punto. La sensazione che dà questo libro è quella di un tentativo di dare voce a ceti sociali e professioni diverse, a vite diverse, mondi incommensurabili eppure compresenti, cercando di restituire ad ognuno il proprio linguaggio non nel senso vernacolare ma di ragione profonda della realtà. Tanti sono i supporti per questa molteplicità di discorsi, non solo i dialoghi, le lettere, ma anche confabulazioni e perfino i messaggi elettronici. Quasi che la complessità, che sta a cuore all’autore, possa essere restituita soltanto seguendo il pieno di voci, di punti di vista, ognuna con il suo logos, la sua ragione profonda, la sua “tonalità”, come egli dice nell’introduzione.
María Zambrano, la grande filosofa del Novecento, scriveva che l’intento della sua vita era di restare fedele ad ogni circostanza, avvenimento, essere, restituendone l’intima ragione. Così quella del cuoco macedone è seguita con attenzione dall’autore tanto quanto la ragione del commercialista barese. Si tratta del tentativo di esprimere il linguaggio proprio di una singolarità e di un microcosmo. Naturalmente soprattutto nei dialoghi vengono messe in campo ragioni chiare, ma questo tentativo attraversa tutti i discorsi dei personaggi che compaiono nei piccoli scenari che il libro apre. Ragioni singolari differenti e al medesimo tempo tipiche.
Credo che la scelta di essere vicino a Seneca e a certe conversazioni colte del Seicento e del Settecento alluda ad una ragione più comprensiva, alla quale ognuno può restare fedele, se segue l’intenzione singolare sul mondo che lo guida e si apre contemporaneamente alle ragioni degli altri, chiarendo la propria e perciò illuminando anche quella dell’altro. Senza sommare le posizioni attraverso uno sguardo di sorvolo che non farebbe che appiattirle. Siamo di fronte ad una dialettica senza sintesi, dove ogni posizione ha il suo perché e dove in fondo nessuno vince e nessuno perde. Forse l’autore, cercando di immaginare le ragioni e i linguaggi che ognuno mette in campo, finisce per creare una molteplicità di frecce all’arco di tutti i compresenti, finendo per annebbiare il taglio della tesi favorita.
La posta in gioco di questo libro sembra dunque quella di poter assumere più maschere, più posizioni, per facilitare scambi pacati e sereni. E allora forse non è indifferente che i titolari di parola siano qui rigorosamente maschili. Uomini dunque – per lo più – in commercio di parola tra loro. È probabile che lo scambio ragionevole, volteriano, inciamperebbe alla presenza di una voce femminile sentita come alterità eccedente, non riconducibile ad un microcosmo parallelo, a lato, differente ma poroso. Una questione che va interrogata, se un testo è anche un sintomo.
Si sa che la forma determina il contenuto, così il messaggio di questo libro è tessuto obliquamente attraverso le scelte di forma via via compiute, che alla fine esprimono l’essenziale di ciò che stava a cuore all’autore. Tanto che io sono convinta che l’autore stesso ne sia rimasto alla fine sorpreso, non conoscendo in anticipo l’essenziale che andava dipanando, ma obbligato a riconoscerlo nel corso della scrittura e soprattutto a libro concluso.