“Veniamo al fatto signori miei”. Le trame pirandelliane di Beatrice Stasi

“Veniamo al fatto signori miei”. Le trame pirandelliane di Beatrice Stasi

Il volume edito da Progedit nella collana diretta da Ettore Catalano

Ho sempre pensato che ogni vero scrittore non sprechi mai le proprie parole e, qualunque cosa si trovi a scrivere, esse tornino sempre ad maiorem gloriam del suo mondo poetico, sebbene l’apparenza testimoni spesso in senso contrario. Il compito del critico sta nel saper riconoscere un centro per ogni fuga centrifuga, nel dare un senso al non-senso, una ragione alla stravaganza e un retto cammino alla digressione; senza alcun intento normalizzatore e senza forzature, dal che s’intende la bontà del critico, la sua capacità di discernere. Non guasta mai, nell’approccio all’opera, l’esercizio di una certa arte del sospetto, che, come hanno insegnato coloro che ne sono stati i maestri sin dall’Ottocento, ci consente di gettare lo sguardo sotto (sub-specere) la superficie delle apparenze e di vedere quanto rimane inevitabilmente nascosto a chi non ha pratica di quest’arte.
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Conosce molto bene l’arte del sospetto, ovvero della critica, Beatrice Stasi, ricercatrice di Letteratura italiana dell’Università del Salento, che, a distanza di qualche anno dall’edizione critica de La Coscienza di Zeno di Italo Svevo (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008), opera che deve esserle costata non poca fatica, si cimenta con un altro grande scrittore della letteratura italiana tra Otto e Novecento, Luigi Pirandello. Il volume cui si fa riferimento ha per titolo Veniamo al fatto, signori miei!, con sottotitolo Trame pirandelliane dai “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” a “Ciascuno a suo modo”, edito da Progedit di Bari nel febbraio 2012, pp. 122, e rientra nella collana Letterature diretta da Ettore Catalano. Il sottotitolo delimita la porzione di opera pirandelliana presa in esame dalla studiosa galatinese. Si tratta di due testi caratterizzati da una medesima trama declinata nei due modi differenti del romanzo (i “Quaderni”) e della commedia umoristica (“Ciascuno a suo modo”).
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Dopo una introduzione dal titolo pirandelliano Premessa antifilosofica a mo’ di scusa (pp. 5-16), la divisione del volume in due capitoli segue questa distinzione: al romanzo sono dedicate le pp. 17-85, al dramma le pp. 87-115. Il titolo è tratto da una battuta del capocomico nei Sei personaggi in cerca d’autore (“Veniamo al fatto, veniamo al fatto, signori miei! Queste son discussioni!), nella quale Pirandello condensa, col piglio umoristico che contraddistingue la sua opera, il disappunto nei confronti di chi lo accusava di cerebralismo, ovvero di indulgere un po’ troppo a quelle che il summenzionato capocomico chiama le inutili “discussioni”. Benedetto Croce, che in questo dava ragione al capocomico, fu cattivo maestro, non comprendendo che tali “discussioni”, come scrive Stasi, in realtà sono “verità… funzionali alla costruzione della fabula” (p. 23) e, dunque, essenziali alla sua comprensione. In Pirandello la speculazione filosofica è al servizio della trama, le tesi fondate all’apparenza su principi astratti sono al servizio della rappresentazione letteraria, non importa se narrativa o drammatica.
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Stasi è maestra nel seguire come un segugio “la parabola del narratore assassino [Serafino Gubbio], che racconta la propria storia per occultare la propria colpa, esibendo le catene che lo asserviscono alla macchina per negare la responsabilità individuale del suo comportamento…” (p. 114).
Come un detective di un romanzo giallo, Stasi ripercorre passo passo la trama alla ricerca della verità, mai separando Serafino- personaggio da Serafinonarratore, anzi collazionando discorsi e azioni e deducendo da ogni incongruenza la verità celata: “… il messaggio veicolato dal discorso diretto di Serafino è doppio, così come è doppio il modello comunicativo da lui adottato: per semplificare, la sua argomentazione logica dice qualcosa, ma la sua esemplificazione concreta dice anche qualcos’altro” (p. 65).
Il presupposto è che “un racconto possa dire o lasciare intendere qualcosa che il suo narratore non intendeva né dire né lasciare intendere” (p. 71). Il compito sopraffino del critico è proprio qui, nel non lasciar mai cadere il sospetto, nella ricerca minuziosa delle prove a carico, nel capire quanto il testo non lascia a una prima lettura capire. In un mondo fondato sulle apparenze, sulle “discussioni” e sulle falsità che ne derivano, il fine della letteratura coincide col fine della critica, ed è quello di ricercare la verità.
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Ne risulta la convinzione profonda, che Stasi rinviene in Pirandello, e che noi troviamo riflessa nello stesso lavoro critico di Stasi, che sia legittimo e doveroso scommettere, sulle orme del grande drammaturgo (ma qui gioca un ruolo importante anche la lezione di Leopardi), “sulla possibilità di creare la cosa nominandola, di un mythos che imponga la concreta evidenza della sua invenzione contro il cerebralismo prevaricante e astruso del logos” (p. 11). Il che vuol dire, dinanzi ai disinganni e alle illusioni della vita e ai falsi discorsi che ci facciamo per ingannare noi stessi, che bisogna credere ancora e forse di più nella letteratura, ovvero, come afferma Stasi, nella “vocazione mitopoietica della scrittura” (p. 9), che, se non crea una realtà alternativa (quella che piacerebbe a noi), almeno rende intellegibile questa nella quale viviamo.
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Utile alla fine l’Indice dei nomi. Manca una bibliografia essenziale sull’argomento, che il lettore dovrà desumere dalle note a piè di pagina.

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