Il ricordo è un cane che ti azzanna

Il ricordo è un cane che ti azzanna

Un libro che ti prende dalle prime pagine e ti accoglie lentamente in una trama leggera e drammatica… Un libro che ti prende dalle prime pagine e ti accoglie lentamente in una trama leggera anche se drammatica drammatica, colorandola con le sfumature calde e aride della terra del sud e i ricordi rianimati dalla carta stampata. E’ questo l’ultimo romanzo di Alessio Viola, con un titolo che smentisce le mie premesse: ”Il ricordo è un cane che ti azzanna”.ed. Progedit. Da leggere tutto d’un fiato per cogliere l’ordito della trama, ma da rileggere lentamente soffermandosi sulle immagini, gli idiomi, i costumi della nostra terra del sud che in un cinquantennio, ha perso quasi totalmente le sue connotazioni ataviche. Alessio Viola, del ’52 di Troia, (FG), riporta nel libro il suo destino già segnato. Infatti emigrato a Bari nel ’64. frequentò prima l’istituto tecnico, per poi laurearsi in filosofia. Ha fatto tutti i lavori possibili. Operaio metalmeccanico, rappresentante, venditore di quadri falsi, professore nelle scuole private, oste, ristoratore, giocatore di rugby. Poi quando ha deciso di smettere di lavorare si è messo a scrivere. Giornalista, ha collaborato con Repubblica, ora è editorialista del Corriere del Mezzogiorno, dorso pugliese del Corriere della Sera. Il ricordo è un cane che morde. Un titolo forte per un argomento cosi’ doloroso. Perchè lo hai scelto, cosa vuol dire? La storia è completamente inventata, ma basata su fatti veramente accaduti. Sono stati vissuti così intensamente dagli abitanti di Troia, similmente a come li hai descritti? Mah….è una frase contenuta nel libro. Deriva dall’impostazione del racconto. L’ispirazione è ai fatti di Gravina di pochi anni fa, due fratellini scomparsi, cercati in tutto il mondo, e poi ritrovati per caso in fondo ad una cisterna in un palazzo in pieno centro. Ritrovati perché un altro bambino ci era caduto. Secondo me, era una continuazione del gioco che aveva causato la tragedia, i bambini del paese ci andavano tutti i giorni a giocare. Questa volta qualcuno ha chiamato aiuto, sono arrivati i soccorsi, e si è scoperto quello che era accaduto un anno prima. Allora ho provato ad immaginare le vite di quei bambini responsabili di quel gioco, il loro crescere con il rimorso, un ricordo che appunto ti azzanna all’improvviso…una parte della storia è uscita a puntate sul Corriere, e gli abitanti di Troia, per quello che ne so, hanno discusso a lungo dell’ambientazione che avevo trovato, una sorta di seduta di filologia troiana collettiva. Il racconto della tragedia di Gravina è infatti spostato nel tempo e nello spazio, negli anni della mia, di infanzia, e a Troia, appunto, non più a Gravina. Troppo doloroso toccare ferite ancora aperte. I personaggi ed i luoghi sono descritti con tenera memoria. Ti rivedi nei luoghi e nelle storie descritte? Era così la provincia italiana del sud? La tenerezza è un obbligo che abbiamo nei confronti dei nostri ricordi. L’Italia di quegli anni è definitivamente scomparsa, anche dalle memorie. Ma era davvero un mondo nel quale tutto sembrava possibile. Il sud, poi, era in qualche modo una terra di scoperte, era Macondo che scopre il ghiaccio, quando il resto del mondo aveva già scoperto il whisky on the rock’s. La televisione era un oggetto comune a Milano. Al sud, un’astronave azzurrina che sbarcava nelle case di pochi fortunati. Mondo magico, incantato. Ma forse soltanto dorato dalla polvere volatile dei ricordi… Quanto ha influito sul racconto il fatto che sia ambientato nella tua città di origine? Mi sono reso conto solo dopo aver avviato il racconto che ambientarlo a Troia era stata una scelta coinvolgente. All’inizio mi sembrava comodo, non dovevo inventare nulla, solo ricordare. Ma ricordare è un lavoro maledettamente duro. Abitavi ancora a Troia quando è avvenuta la tragica morte dei due fratellini? Ricordi l’atmosfera del periodo in cui la storia è avvenuta? Sì, abitavo ancora a Troia, certo, nel periodo in cui ho immaginato di raccontare la storia. E le atmosfere che ho descritto, le giostre, le feste, la scuola, le famiglie, è esattamente la cronaca di quel tempo, di quel mondo. Poi, noi leggiamo tutto il nostro passato attraverso le morbide lenti della malinconia, ogni cosa ci appare leggera, magica, fantastica. In realtà eravamo semplicemente più giovani, ragazzi, è non c’è altro che la vita possa darci di meglio di quella felicità selvaggia del nostro essere ragazzi per sempre. Il linguaggio che adoperi nel libro è paterno ed allo stesso tempo fanciullesco, mai freddo e disinvolto. E’ casuale o voluto? Ho deciso di raccontare questa storia perché sto imparando a conoscere il mondo dei bambini. Ho un figlio di 7 anni, da lui apprendo i loro codici di comportamento, la scala di valori, i modi di esprimersi. Ho scoperto che sono capaci di straordinarie omertà, di incrollabili fedeltà all’amicizia, alle complicità. Da questo è partita la riflessione sui fatti di Gravina. La spiegazione più semplice, a differenza delle follie investigative che portarono all’arresto del padre. I bambini vivono in un mondo virtuale che creano e disfanno ogni giorno, e noi ne siamo esclusi. Tutto quello che possiamo fare è cercare di osservarlo, di leggerne in filigrana i contenuti. E questo si può fare solo con sguardo paterno, coinvolto, capace di sentire le loro stesse emozioni. La modalità narrativa giornalistica che adoperi solitamente è dura e aggressiva. Qui si fa dolce e talvolta lirica. Qualche cosa a che fare con la paternità? O più con la dolcezza dei ricordi? Mah…ho cercato anche qui di essere essenziale, o duro se vogliamo usare questo termine. Non mi piacciono i compiacimenti romantici, la malinconia come strumento commerciale, il ricordo che sollecita la lacrima. Mi sembra di approfittare delle persone che leggono. Per cui cerco di essere essenziale, a volte addirittura brutale, e questo avviene normalmente nell’attività giornalistica.. poi, certo, la materia del racconto è quella. Bambini. E uno può tentare di essere freddo e obiettivo, ma è un esercizio maledettamente difficile. Parlo dell’infanzia, di mio figlio, di quei bambini persi nel buio. Difficile non lasciarsi andare alla tenerezza. Verso tutti noi. Qual è il passo che hai scritto con più difficoltà? I bambini che mentono, gli zingari incolpati, il padre crocefisso, la società ipocrita..? All’inizio volevo raccontare la vita dei due fratellini laggiù nella cisterna. Ogni volta che incominciavo a scrivere mi assaliva il dolore, troppo più forte di me. Tentavo una proporzione semplice: mio figlio ha paura del buio, di un breve tratto di corridoio che separa la sua stanza dalla mia. Che paura totale, assoluta devono aver provato i due fratellini precipitati di colpo all’inferno? Qui mi bloccavo, impossibile descrivere senza farsi male. Nel libro si gira intorno a questo, ma non riesco a parlarne ancora in maniera completa. Troppo doloroso. Che ne pensi di tutti questo casi di violenza in famiglia? Cose sempre esistite o enfatizzazione mediatica? La famiglia è il posto più pericoloso al mondo dove vivere. Se per famiglia intendiamo quegli intrecci multipli che esulano dal rapporto di base genitori-figli. E anche in questo caso, le tragedie sono infinite. Credo che valga una legge fisica, quella degli spazi, dei vuoti che non esistono, vanno colmati sempre. Vuoti di affetti, di sessualità, di comprensione, di affare ed interessi. La famiglia è un gruppo definito di persone che vivono uno spazio di vita limitato. Inevitabili i conflitti. Ad ogni livello. Credo che quelli economici siano predominanti, e forieri di tragedie peggio di quelli sessuali. Questi ultimi naturalmente sono più clamorosi, colpiscono l’immaginazione e le coscienze. Ma la famiglia è spesso una giungla, da attraversare con prudenza, disseminata di trappole e di fiere pronte a colpirti. La soluzione dell’eremitaggio è ancora la migliore per sopravvivere….l’animo umano è un abisso, e ci si perde a guardarci dentro… Questo tuo libro è molto diverso dai precedenti, soprattutto dall’ultimo, ”Ghiaccio” forse inventato, ma più vero, come lo spieghi? Ogni libro ha una genesi diversa. I miei nascono per caso, mentre sto camminando. Mi viene in mente una storia, corro a scriverne l’incipit. Nel 90% dei casi rimane così, sono il più grande scrittore vivente di incipit al mondo…qualche volta continuo, allora viene fuori la storia. Ghiaccio nacque per strada, mi piaceva l’idea di riavvolgere un racconto finito nel libro prevedente, closin’ time. Il cane da una intuizione su quella tragedia, che solo dopo la prima puntata divenne anche una storia della mia infanzia…così nascono le mie cose. Non sono capace di creare a tavolino, come fanno i veri scrittori, i professionisti. Quelli fissano una trama, i personaggi, i capitoli, assegnano i ruoli….decidono quando far piangere e quando ridere….beati loro Dedica una frase del tuo libro alle nostre lettrici…. “L’infanzia è il tempo di vita che ci rimane, proprio per questo va vissuto con la consapevolezza degli adulti. Non ne sprechiamo neanche un attimo…” . Non c’è nel libro, peccato, mi sono dimenticato di metterla….

Data: venerdì 12 Novembre 2010
Fonte:
www.dols.net il sito delle donne on line
Autore:
Caterina della Torre
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