Il cronista pugliese al suo esordio narrativo
Sette pezzi facili. Parafrasando il titolo di un bellissimo film americano degli anni Settanta, regia di Bob Rafelson, si potrebbe restituire così la scansione «settimanale» della raccolta dei racconti di Onofrio Pagone, Per un giorno (Progedit, pp. 112, euro 14,00). Esordiente nella fiction, l’autore non lo è certo nell’esperienza quotidiana della scrittura. Cinquant’anni, giornalista da trenta (gli ultimi dieci su queste colonne) e vincitore di premi prestigiosi come il «Saint-Vincent» per alcuni reportage, Pagone entra in punta di piedi nel mondo delle narrazioni letterarie. In premessa, con un pudore insolito, egli dichiara questo smarcarsi momentaneo dalla cronaca, distillata sublimata affabulata nei sette racconti: «Per un giorno voglio provare a volare con la fantasia… Queste storie sono tutte vere. Non importa né dove né quando sono accadute. Sono vere perché sono storie di vita. Eppure sono tutte trasfigurate, rielaborate, immaginate. Per un giorno, da cronista dei fatti voglio diventare un cronista dell’anima».
Il protagonista unico dei racconti, un Io narrante a tratti autobiografico, prende le mosse da occasioni esistenziali, situazioni familiari, scherzi del destino e osservazioni smagate. Lo si immagina e ci si affeziona a lui lungo un fil rouge a zigzag di una mezza età per fortuna non pacificata. Il Nostro, infatti, appare disposto a rimettersi in gioco senza fardelli ingombranti «del secolo scorso», ovvero ideologie cieche o fedeltà eccessive (si veda la visita in abbazia di Monaco per un giorno, fra incanto mistico e umanissimo disincanto).
Diario della coscienza inquieta, Per un giorno è caratterizzato da uno sguardo acuto e raffinato, che contempla le cose e ne sviscera le segrete ragioni (o le ricorrenti irragionevolezze), fin dalle pagine iniziali. I due primi racconti sono infatti dedicati al «pizzo» cimiteriale che al Sud rischia di inquinare persino il lutto e alla penuria d’acqua che in un condominio affligge solo l’inquilino dell’ultimo piano.
E colpisce la propensione «balzachiana» di Pagone per il ritratto d’ambiente, con la mistura di grottesco e di poetico, di realistico e di arbitrario che s’accompagna all’eterna «commedia» dell’umanità. Ecco, allora, l’allergia suscitata nel protagonista da un «aerogatto» e dalla sua algida padrona bionda su un volo Città del Messico-Parigi. D’altro canto, fa testo l’indulgenza e la «complicità» del giurato eterosessuale in un concorso di bellezza per trans, dove lui si presenta in compagnia di una bella ragazza. Non sarà per caso un modo di fugare i sospetti? Ovvero, lo incalza l’estroversa conduttrice, «Dì un po’: non è che pure tu sei ricchione?».
Nel racconto Spumante e biberon c’è un illuminante esempio di osservazione partecipe che si trasforma in idiosincrasia. Il protagonista arriva in anticipo, credendo però di essere in ritardo, a una festa di presentazione di un bebè agli amici dei genitori. «Poi venne il momento della pappa, e fu il trionfo della esibizione della destrezza materna (…). Tutte insieme, quasi contemporaneamente, si sbracarono le camicette sfilando le mammelle gonfie noncuranti dei mariti altrui, piazzarono il capezzolo come biberon e si lasciarono cullare dalla soddisfazione del primato raggiunto. Erano tutte eguali queste mamme, tutte acconciate alla stessa maniera, tutte attrezzate per scoprire i seni così come fanno sulla spiaggia le zoccole che i loro mariti non guardano e non devono guardare».
Il più melanconico, quasi struggente, dei «pezzi» allegorici di Pagone è Sulle punte, votato all’incontro dell’uomo con una giovanissima e leggiadra ballerina. Lui assiste a una sua lezione di danza non priva di una affollata pausa-sigaretta, poi insieme se ne vanno in giro per gli stand di una fiera del ballo e infine, in autobus, fino al portone della casa di lei. Dove una semplice, sorprendente battuta, dirà il grande amore che li lega per un giorno e per sempre.