Antonio Rossano, A salvarci sarà una storia

Antonio Rossano, A salvarci sarà una storia

 

L’ultima prova

del giornalista scrittore-barese

Antonio Rossano:

«A salvarci sarà una storia»

intervista di Fabrizio Versienti

«Cosa resterà di questa città…»,

si chiedeva qualche anno fa Nabil

nel primo disco degli appulo-palestinesi

Radiodervish. Quel che restò

di una città, spiega oggi, senza

esitazioni, il titolo del nuovo libro

di Antonio Rossano. La città è sempre

la stessa, Bari, ma fra quel futuro

e quel passato remoto corre una

grande distanza. Di tempi e di generazioni,

di «format» (un conto è

una canzone, un conto un romanzo),

di tono e di contenuti. Quanto

i Radiodervish erano smarriti e dolenti,

tanto Rossano è arrabbiato e

fermamente ottimista.

Una vita da giornalista tra carta

stampata (Gazzetta), radio e tv

(Rai), con una certa preferenza per

il microfono e la radiofonia, una

grande passione per il teatro e per

le favole, una naturale inclinazione

per l’insegnamento che l’ha portato

dalla facoltà di Economia alla

scuola di giornalismo dell’Ordine

di Bari, Antonio Rossano è un instancabile

poligrafo che accumula

libri su libri, passando dai saggi ai

testi per il teatro, dai racconti ai romanzi,

senza trascurare alla bisogna

di mescolare un po’ le carte

con improvvisi scarti di registro

(come nel suo ormai penultimo libro,

Dormire, forse sognare). Lui si

schermisce: «Il mestiere mi aiuta.

Poi in fondo si tratta di fare sempre

la stessa cosa, raccontare, porgere

in modo credibile a chi legge

una storia».

Questo nuovo libro sembra

aprirsi dove quell’altro si chiudeva,

con un sogno; o meglio, la visione

onirica di una Bari distrutta,

devastata da un cataclisma misterioso

e doloso. Una città ridotta

a un paesaggio di rovine, avvolta

da una nuvola di polvere che ha

oscurato il sole.

«Sì, è un’immagine che ha un

po’ le caratteristiche del sogno. Probabilmente

dipende dal modo in

cui è stato scritto questo libro: è un

testo che risale a tanti anni fa, a prima

dell’incendio del Petruzzelli.

L’ho scritto di notte, mentre lavoravo

al giornale: una volta finito il lavoro

quotidiano, mi trattenevo in

redazione a scrivere cose mie. Forse

è per questo che l’atmosfera è così

notturna, sospesa. All’epoca mi

rivolsi a qualche editore, ma non se

ne fece niente. Così, l’ho tenuto nel

cassetto; poi, recentemente, mi è

capitato di rileggerlo e mi è sembrato

che avesse una sua attualità».

Nel libro i superstiti vivono asserragliati

dentro Bari Vecchia, o

per meglio dire sopravvivono in attesa dell’ineluttabile morte per

soffocamento, mentre "sopra" di

loro, a Superior, vive un’altra

umanità. E’ un mondo diviso in

due, crudele, dove solo gli affaristi

come don Giacomino continuano

a trovare una ragione di vita.

«La molla che mi spingeva a scrivere

fu la sensazione precisa e dolorosa

di un calo della tensione politica,

di un’incapacità del ceto politico

di progettare il futuro. C’era stata

una vera e propria mutazione genetica,

eravamo passati da figure

come quella di Aldo Moro o Araldo

di Crollalanza (che fu amministratore

serissimo, preparato, attento alla

sua città) a quelli che io chiamavo

in un libro del ’96, O cambiamo protettore

o rubiamo San Nicola, i viceré:

Formica, e poi Tatarella, nella

migliore delle ipotesi "mediatori"

rispetto a un potere effettivo collocato

altrove. Questo processo ha

coinciso con lo spegnersi delle

energie vitali della città: pensiamo

all’economia, alla cultura, alla vita

civile. Questi problemi oggi sono

tutt’altro che risolti, mi sembra che

si viva sempre più in un mondo dove

c’è chi sta sopra e chi sta sotto ».

Il libro sembra davvero una favola

nera, senza possibilità di riscatto.

Invece poi la vicenda prende

un’altra piega, verso un finale

ottimista che segna la ripresa in

mano del proprio destino da parte

della comunità.

«Tutto cambia con l’arrivo dei comici.

I teatranti arrivano dal nulla

alle porte della città, e poi vi s’insediano

conquistando la fiducia di

tutti. E’ la loro capacità di raccontare

storie a ridare vita alla comunità

che le ascolta».

Un campionario di umanità ostinata

Incomincia come una favola nera, vira verso la

fantascienza e Blade Runner, ma termina con il

ritrovarsi di una comunità grazie al calore di una delle

arti più nobili e antiche, il teatro. E’ l’ultimo libro di

Antonio Rossano, Quel che restò di una città, un

apologo sulla perdita di senno dell’umanità

contemporanea e sul suo possibile ritrovarsi, popolato

di un piccolo e variegato campionario di caratteri che

si muovono su una scena spettrale. Bari non c’è più: è

stata rasa al suolo dai suoi stessi abitanti, intenzionati

a ripartire da zero in un mondo migliore, più asettico

e più «elevato». Infatti si chiama Superior, è collocato

al di sopra della vecchia Bari, oltre la coltre spessa di

polvere sporca e tossica che rende grigia, spenta e

sempre uguale la luce del cielo, giorno e notte. E da

lassù, gli abitanti di Superior avvelenano letteralmente

con i loro scarichi la vita dei sopravvissuti che hanno

voluto restare nella vecchia città, asserragliati tra le

mura del centro storico. Quaggiù, tutti prima o poi

muoiono divorati da una tosse assassina. E c’è chi fa

affari, don Giacomino, unico a non perdere la bussola

e a trarre profitto dal marasma generale, finché un

colpo di scena teatrale (in tutti i sensi…) ne svela

l’inganno supremo, la natura di androide (e qui siamo

davvero dalle parti di Blade Runner…). Ci sono i tre

attori, il capocomico con l’attricetta-amante e l’altro,

che portano avanti un gioco antico come il mondo; il

non rassegnato «Professore»; Minguccio l’oste, che fa

collezione di storie da raccontare ai suoi clienti. Anche

in un paesaggio con rovine, ciò che conta alla fine è questo:

saper raccontare una buona storia.

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