Se la preziosità di un bene, in economia, si calcola soprattutto con il parametro della scarsità, figuriamoci quale dev’essere l’atteggiamento delle comunità nei confronti dell’unico bene più scarso, e quindi più prezioso, dell’energia: il territorio. Il territorio è l’unica risorsa non rinnovabile, non riproducibile. Basterebbe questa considerazione, facile facile, per mettere il freno a mano, facendo ricorso alla proverbiale prudenza morotea o al più filosofico rasoio di Occam, nei confronti di tutte quelle iniziative, urbanistiche ed architettoniche, che concepiscono il territorio come il campo di Agramante, in cui ciascuno raccoglieva qualcosa.
Il Lettore ci perdoni se l’abbiamo presa alquanto da lontano. Veniamo al dunque. Se c’è un’idea, partorita in questi anni a Bari, che contrasta con la concezione del territorio quale bene da preservare addirittura più di quelle risorse di cui si occupano gli ambientalisti sostenitori del Protocollo di Kyoto, questa è la Cittadella della Giustizia. Non si tratta di iscriversi al «Partito del No». Anzi. Ma la proposta di costruire la Cittadella della Giustizia, presentata dall’impresa settentrionale «Pizzarotti», in un’area agricola (a sud dello stadio San Nicola), lontana dal centro cittadino, va contro alcuni «punti fermi» della politica, della buona amministrazione, della convivenza civile, del buongoverno, della stessa moderna concezione urbanistica delle città, orientata sì a rispondere alle pulsioni policentriche e periferiche della domanda abitativa, ma soprattutto all’obbligo morale, prima che economico, di recuperare, riutilizzare, riqualificare il patrimonio edilizio esistente, pena il rischio di degrado all’interno dello stesso centro cittadino.
A chi nutre ancora dei dubbi sulla solidità di queste tesi consigliamo di leggere il libro «Giustizia a Libertà» (120 pagine, Progedit editore, 9 euro) curato da Nicola Colaianni e Nicola Signorile, il cui titolo dice tutto: il palazzo, i due palazzi della Giustizia devono restare nel quartiere Libertà. Alla Cittadella della Giustizia va contrapposto il principio, l’alternativa dell’Arcipelago della Giustizia. Oltre alle analisi dei due curatori, il volume si avvale dei contributi del sindacalista Piero Colonna, dell’ingegnere Raffaele Coniglio, dell’architetto Arturo Cucciolla, del dirigente bancario Ignazio D’Addabbo, dell’architetto Rocco Carlo Ferrari, dello studioso Francesco Marocco, del docente di urbanistica Nicola Martinelli, del sociologo Enzo Persichella, del tributarista Antonio Troisi e dell’associazione «Sviluppo sostenibile».
Il magistrato Nicola Colaianni, che insegna Diritto pubblico a Bari, non solleva soltanto una questione di legalità (fregarsene, con una variante, degli strumenti urbanistici in vigore). Solleva anche questioni di merito e opportunità: che senso ha dismettere i due palazzi del quartiere Libertà per andare a finire sulla tangenziale? Che senso ha convogliare in un unico punto migliaia di persone tra impiegati e cittadini, nell’era dell’informatizzazione e del telelavoro incipiente? Si possono saccheggiare altri 30 ettari di verde alla città? Ed ancora: il tribunale di regola dev’essere
centrale, come il palazzo del Comune. È una lezione tramandataci dai nostri avi, è un’esigenza di identità per l’intera collettività. A Trento, ad esempio, il nuovo polo giudiziario è stato concepito e realizzato come un «elemento di centralità».
Nicola Signorile, collega della «Gazzetta», che i nostri lettori conoscono come acuto e implacabile critico di architettura, e come demolitore di testardi luoghi comuni, va sùbito al cuore del problema-dilemma: si deve consentire che si costruisca un milione di metri cubi fuori dal centro cittadino, in area agricola (e non verde) per farne una «Cittadella della giustizia privata» da dare in fitto al Comune; oppure si deve riqualificare il patrimonio edilizio pubblico ed incrementarlo, mantenendo gli uffici giudiziari nel quartiere Libertà?
Signorile non affronta solo la questione della sede «giudiziaria». Il suo timore è che gli strappi urbanistici continui alla concezione profilattica di «città normativa» (che mette nero su bianco un’idea di città) determinino una realtà indistinta e fuorilegge, assediata da libidini, molestie e choc continui, mentre «la città – scrive citando l’antropologo Claude Lévi-Strauss – è, nello stesso tempo, oggetto di natura e soggetto di cultura; individuo e gruppo; vissuta e sognata; cosa umana per eccellenza».
Gli amanti del paradosso sottolineano spesso che se uno copia da un testo commette peccato (e reato) di plagio, mentre, se copia da più testi, merita una standing ovation perché ha prodotto un’insostituibile opera di ricerca.
Alcune parole-chiave, avvertiva l’economista Luigi Einaudi (1874-1961), nascondono scatoloni vuoti. Una di queste è la «ricerca di mercato», che spesso tutto è tranne una ricerca, visto che il suo scopo è di sapere già in anticipo l’esito dell’indagine.
Applicata all’urbanistica e all’architettura di una città, lo strumento della «ricerca di mercato» rischia di risultare più devastante di un kamikaze che si lascia esplodere. È il «concorso», invece, la via più efficace, trasparente, conveniente, liberale. Lo confessava già Alvar Aalto, ricorda Signorile, a chi gli domandava quale fosse il segreto della sua Finlandia per costruire palazzi così belli e città così gradevoli. A Salerno, auspice il celebre Oriol Bohigas, l’architetto creatore della nuova Barcellona, scelsero la strada del concorso internazionale proprio per la costruzione di una Cittadella della Giustizia, che anziché emigrare sulle montagne, com’era stato incredibilmente (quasi) stabilito all’inizio, trovò la sua sede sul filo del centro storico. Salerno, sottolinea Signorile, dimostra che «i tribunali e gli uffici giudiziari sono una grande occasione per realizzare un’architettura di qualità e, attraverso di essa, riqualificare quartieri popolari e aree urbane degradate. A Bari rischiamo il paradosso di avere uno stadio che costituisce un capolavoro di architettura ed una Cittadella della giustizia realizzata invece attraverso una ricerca di mercato (dal presupposto urbanistico falso), in cui il requisito della qualità architettonica è del tutto ignorato».
Ma non c’è solo Salerno come esempio di «concorso internazionale». E poi, se proprio l’ha ordinato un medico don Rodrigo che la Cittadella s’ha da fare, l’area «ad hoc» c’è, osserva Rocco Carlo Ferrari (che pure propende per l’Arcipelago al Libertà): il Tondo di Carbonara.
Finale. È un libro carico di interrogativi, cifre, raffronti. Un libro di analisi, più che di opinioni. Come dev’essere un testo che vuole fare discutere.